Ve la do io la Russia. Parola di Prigov

Poliedrico artista russo ma anche poeta, scrittore e commediografo nonchè autore di performance musicali e teatrali. Dmitri Prigov, ovvero colui che ha restituito il ritratto fedele dell’epoca sovietica. In un indissolubile legame tra arti figurative e letteratura. A Venezia fino al 15 ottobre.



Più profondiamo per la Patria amore / Meno alla Patria andiamo a genio / Lo dissi un giorno e da allora / La mia idea non è venuta meno. Prolifico poeta russo - ha scritto oltre 20.000 poesie -, Dmitrij Aleksandrovic Prigov (Mosca, 1940 - 2007) in epoca sovietica uno degli intellettuali dissidenti, nasce come scultore per poi passare dalla grafica al collage, dalla poesia visiva all’installazione fino alla performance e imporsi come figura chiave del Concettualismo Moscovita. Movimento della cultura non ufficiale fino all’avvento della Perestrojka che si diffonde a cavallo tra gli anni ‘60 e ’70 nell’ambito delle arti plastiche e della letteratura e dove l’artista guarda sopratutto a Malevic e a Duchamp.  



In una commistione imprescindibile tra arte figurativa e poesia dove la lingua è veicolo per decodificare e trasmettere significati complessi, Prigov sin dagli anni ’50 identifica la condizione drammatica della società sovietica e mette scena la parodia del regime socialista servendosi degli stereotipi del regime stesso, per dedicarsi nel decennio successivo alla poesia visiva e ai mini scritti in lattina. Negli anni Settanta gli schizzi diventano più inquietanti e il tema dell’orrore leit motiv della sua ricerca insieme a quello della morte, tema particolarmente drammatico se visto nel contesto russo. Prigov è terrorizzato dall’espansione nello spazio, il cosmo si trasforma in buio profondo e il paesaggio in orrore, persino i suoi autoritratti hanno lineamenti congelati, quasi fossilizzati. E’ la presa di coscienza che per la Russia non c’è salvezza. Per reazione scaturiscono progetti bianchi come spazi sterili di un ospedale, un cupo presagio dal momento che da lì a poco verrà arrestato e internato in ospedale psichiatrico, seppur per breve tempo. 



La mostra è una conseguenza della donazione del corpus centrale dell’opera dell’artista all’Ermitage, da parte della Fondazione lo scorso anno, tutt’ora oggetto di ricerca di un team d’eccellenza. Disegni, oggetti e installazioni - alcune delle quali allestite per la prima volta in base agli schizzi preparatori dell’artista -, vanno ad integrarsi alle musiche o alle poesie che si diffondono tra le sale. Introdotta da tre video che documentano le performances poetiche dell’artista, da oltrepassare nel vero senso del termine in quanto fungono da sipari che si susseguono nella prima parte del corridoio, la mostra è introdotta e dominata dal “terzo occhio” e dal calice di vino. Mentre nel percorso brevi iscrizioni e forme verbali vengono incorporate a collage e disegni - tra cui fantastici bestiari di matrice medievale strutturati come storyboard - dove costantemente ritornano pietre, travi in legno, sedie senza gambe, tavoli e pile di carta. Gli oggetti spesso lignei, legati tra loro da corde sono immobilizzati e sospesi in un equilibrio irrazionale mai evidente al primo sguardo e per questo particolarmente sinistro.
La mostra coi suoi progetti aperti si configura come un’opera globale, una Gesamtkunstwerk. Un’opera d’arte totale dal forte impatto scenico che vuole essere una perfetta sintesi dei differenti linguaggi espressivi. E ci riesce.

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