The mirror is abominable
L’universo visibile è illusione, o - più precisamente – sofisma; gli specchi e la paternità sono abominevoli perché lo moltiplicano e lo divulgano. (J. L. Borges) Luogo non luogo, o spazio altro come lo definirebbe Foucault, dove finzione e realtà s’incontrano e si confondono, lo specchio è un simbolo cardine dell’opera di Borges, presenza quasi ossessiva che incarna l’inevitabile moltiplicazione spettrale della realtà. Lo specchio come doppio - indissolubile unione fra l’oggetto e il suo riflesso - via d’accesso verso l’infinito, viatico di tutto ciò che di latente appartiene alla natura umana e dove tutto si sovrappone e sovverte, rappresenta il medium congeniale a sviscerare gli aspetti più occulti dell’era postmoderna attraverso l’icona della società delle immagini: la fotografia. Metafora per eccellenza di duplicazione della realtà, poiché concede alla natura di simulare se stessa, la fotografia è il mezzo espressivo scelto per offrire un motivo di confronto in quanto l’unico che permetta di rendere visibile l’altro, così come quei mondi paralleli alla realtà. Ovvero al di là dello specchio.
Lo specchio come luogo di trasformazione e d’inganno, dove ambiguità e duplicazione dell’ apparenza possono rivelare inaspettati e sorprendenti lati dell’esistenza, lasciare emergere la vera identità individuale o collettiva per svelarne un volto fino a quel momento estraneo. Nello specchio c’è un altro che ci spia, direbbe Borges, poiché l’essere che lo abita non riconosce chi ha davanti a sé in un gioco abominevole dove è impossibile distinguere l’immagine reale da quella riflessa, come per Narciso alla fonte. Inquietante alter ego, lo specchio è lo strumento che palesa ciò che sta altrove, al di là dei nostri limiti, fornendo l’occasione di esplorare mondi sconosciuti, di creare una connessione tra una visione reale e quella speculare dell’immagine in una gara di scambio tra verità e finzione. Quale sarà l’immagine più veritiera? Paradossalmente potrebbero esserlo entrambe. Il mondo oltre lo specchio significa concepire altre realtà capovolgendo le attuali. Realtà come labirinti che si moltiplicano nello scorrere inarrestabile del tempo dando vita a una serie infinita di universi, come quelli concepiti dai tredici artisti invitati a rivelare il riflesso della controversa epoca contemporanea grondante di caducità ed inquietudine. Senza una eternità, senza uno specchio delicato e segreto di ciò che accadde nelle anime, la storia universale è tempo perso, e con essa la nostra storia personale - il che ci rende fastidiosamente spettrali.
La riflessione verte sull’archetipo del doppio, nell’opera di Massimo Festi, che muove dall’ambivalenza della maschera nel tentativo di alterare l’identità attraverso le icone della società massmediatica. Statici e austeri, gli Eroi, decontestualizzati ed inseriti come sagome ritagliate su un fondale barocco, tendono ad evidenziare il lato oscuro dell’esistenza, tra mimetismo e suggestioni fetish al servizio di un’intensa pittura mediale. Ambito nel quale si muove agevolmente anche Franco Podda, attento osservatore della realtà che deforma per giungere ad un eros appena accennato. S’ispira ad una lirica storia zen per Soul Thoughts, - dove una farfalla sogna d’essere un umano che a sua volta sogna di trasformarsi in farfalla - per stabilire da quale parte dello specchio si trova la realtà naturale, tra dissolvenze di un mondo patinato ad enfatizzare la visione artificiale del reale. Riflette sul tema del doppio anche Barbara La Ragione, in una società mutante ai confini dell’horror, per evidenziare la mostruosità animalesca dell’individuo. È un grottesco ritratto di famiglia, Mr. e Mrs. Hibryd Liberti whith Baby, dove la raffinatezza della composizione e uno spazio senza tempo altro non possono che esaltare inquietudine ed angoscia provocate dalle maschere-simulacro. In una "messa in scena" di inquietanti ibridi che sembrano uscire direttamente dagli specchi borgesiani. Il dualismo identitario è alla base del Distacco di passaggio di Paolo Carta, riflessione sull’energia che prepotentemente mira ad imporsi su uno stato di apatia esistenziale. La simbologia cromatica, l’uso dei materiali industriali, il segno come traccia tangibile d’impetuosità tutto converge alla ricerca di un equilibrio illusorio dove Alfa e Omega, bene e male, inizio e fine di ogni cosa emergono, si contrappongono e poi confondono amalgamandosi in una dimensione atemporale.
E’ un universo visionario, al limite del surreale quello creato da Tommy Retrò, in un rigoroso bianco e nero che sprigiona echi da romanzi gotici o sembra provenire da set cinematografici firmati Bergman o Bunuel. Solo dopo uno sguardo attento intuiamo che lo stato angoscioso trasmesso da Riflessioni non dipende soltanto dall’ambientazione onirica ma anche dalla straniante prospettiva escheriana che tutto confonde. Il senso claustrofobico coniugato a quello di smarrimento drammatizza l’immane sacrificio a cui è sottoposta la protagonista, ossia non poter mai vedere la propria immagine riflessa. Ambientazioni irreali e atmosfere straniati da noir patinati, invece per Luisa Raffaelli che rivela una ricerca estetica fondata sull’ambiguità tra caos ed equilibrio, tra reale ed immaginario, tra degenerazione del soggetto ed alterazione del mondo. Purezza esasperata dell’immagine e valori cromatici intensi si configurano a caricare di centralità e monumentalità Inside, dove è la figura femminile ad imporsi in uno scenario fuori dal tempo ad evocare l’altrove. Nel tentativo estremo di trovare quel volto che anche allo spettatore non è concesso vedere.
Riflette sugli oggetti legati alla quotidianità, Francesca Dotta, passando in rassegna ogni dettaglio che enfatizza attribuendogli una parvenza estranea alla sua natura e dove il gesto fotografico non prescinde da essenziali ed equilibrate composizioni. Con Meduse riesce a rivelare l’anima delle cose, la loro occulta realtà, quella che si trova tra le pieghe della materia – decontestualizzata dai suoi caratteri - e che solo uno sguardo attento e disilluso riesce a percepire. Restituisce particolari minuziosi della realtà, anche Francesco Arena, servendosi del corpo come strumento d’indagine e pretesto narrativo. Il corpo come involucro fondato sulla sua decostruzione, come luogo di drammi per una ricerca quasi ossessiva dell’essenza. L’ambiguità dell’apparenza connota immagini speculari, sovrapposte, ripetute all’infinito come in Body of evidence, work in progress di particolari anatomici - dalle suggestioni erotiche - a comporre il puzzle dell’esistenza. Meno carnali e non più pretesto di trasgressione sono invece i corpi immortalati da Piero Roi. Figure diafane mancanti di qualunque consistenza sono fagocitate da ombre che restituiscono una dimensione cangiante. Immagini spettrali, proiezioni d’identità effimere che affiorano dall’oscurità nel tentativo di affermare un’essenza negata, sono connaturate da un nero profondo che rende la superficie specchiante in grado di suscitare una percezione altamente straniante. Non lontana da quella innescata dal duo Salis & Vitangeli che attinge dal concetto di miraggio per creare immagini monumentali, ieratiche, immerse in un’atmosfera sospesa dove la realtà trasfigura attraverso la sovrapposizione inarrestabile di esperienze. Le menhir qui parle concepisce il miraggio come inganno visivo, illusione metafisica della realtà dove è la seduzione dell’immagine a fare da protagonista. Frame fotografici giustapposti a costruire universi paralleli tra raffinatezze cromatiche e compositive.
La capacità di sintetizzare in un unico scatto il volto di una metropoli è alla base della ricerca di Davide Bramante. In NY Time Square i luoghi emblematici della città sono restituiti in una visione simultanea della realtà: neon, insegne luminose, squarci di paesaggi si sovrappongono, dissolvono lasciando emergere una metropoli ora silenziosa, in un palinsesto di lacerti svelati e rivelati a scandagliare uno sguardo solo apparentemente superficiale. Indaga lo stesso ambito Manuel Mura muovendo da un’attenta, quasi certosina, analisi attraverso le superfici specchianti delle lamiere automobilistiche, per strutturare ambientazioni - giocate sul geometrismo e sull’equilibrio della composizione - avvolte da una patina che restituisce un paesaggio urbano onirico, dove soavi dissolvenze catturano l’ambiguità della rappresentazione. Lo specchio come via d’accesso alla più profonda interiorità individuale, è l’interpretazione data da Valentina M che s’ispira a Rosa Montero ne El verdadero viaje, esplicito riferimento allo specchiarsi "dentro" per approdare a nuovi mondi. Il viaggio interiore come pretesto per rendere visibile ciò che all’occhio umano risulta invisibile, uno squarcio pittorico, quasi fiabesco, sulla realtà metafisica tra veritas e fictio. (Roberta Vanali da catalogo mostra)
Buon lavoro!
RispondiEliminaTi ho lasciato l'indirizzo di un gruppo di cui faccio parte.
E' appena nato.