Di vetro e di ossa. Il Memento mori di Jan Fabre a Venezia


Una selezione di quaranta opere di vetro di Murano e ossa animali e umane in cui si concentrano i codici espressivi e la poetica di Jn Fabre. Tra fragilità e resistenza, tra interno ed esterno, tra vita e morte, l’ultimo grande progetto dell’artista.


Verde come la speranza ma anche come il veleno”, al centro del chiostro dell’Abbazia di San Gregorio emerge lo scarabeo stercorario in vetro di Murano sormontato da una pianta d’alloro, ultima opera realizzata da Jan Fabre, sintesi del ciclo naturale della vita tra metamorfosi, morte e rigenerazione. Mentre tutt’intorno, sulle mensole, si stagliano colombe blu e ratti volanti. 


Sono il vetro e le ossa a fare da protagonisti nel progetto inedito che racchiude 40 opere realizzate tra gli anni settanta e i giorni nostri. In questa riuscita esposizione dove confluisce tutta la poetica dell’artista, la summa concettuale e analitica che, tra orrifico e immaginifico, dalla costante dualità della rappresentazione arriva ai processi metamorfici passando per la caducità dell’esistenza. Tra altari catacombali di ossa e vetro che esibiscono una vagina e un pene, teschi blu come il momento sublime in cui l’oscurità si apre alla luce e il grottesco cimitero dei cani abbandonati che strazia l’anima.


Se l’utilizzo delle ossa, come memoria della presenza dell’uomo, proviene da quella tradizione pittorica fiamminga che univa i pigmenti alle ossa animali triturate finemente, la fascinazione del vetro come medium alchemico gli arriva, invece, dall’infanzia e ne segna gli esordi con The Pacifier, paradossale succhiotto in vetro e ossa, mai esposto prima, metafora della bellezza dell’arte che tanto appaga quanto ferisce, realizzato dopo aver assistito ad una mostra di Beuys. Proseguendo ci si imbatte nella strepitosa, quanto mai attuale, Canoa congolese a misura naturale che assembla con maniacale accuratezza migliaia di lamelle d’osso, corredata da remi di vetro dalle estremità a forma di mani. Per passare al corridoio dove, ai teschi da cui spuntano scheletri di piccoli animali, si alternano spettrali monaci ottenuti dalla sezione di ossa animali combinate a quelle umane. E ancora una teoria di globi-ovulo invasi da miriadi di spermatozoi, una croce con decorazioni vitree a pelte in cui s’insinua lo scheletro di un serpentello, citazione del peccato originale nonché omaggio al Giardino delle Delizie di Bosh e infine sfere e tartarughe disseminate sul pavimento.


Tra compiacimento estetico e repulsione, tra spettacolarizzazione e provocazione, attraverso i meccanismi del corpo e la spiritualità dell’anima come metafore dell’esistenza, l’artista si pone come tramite tra il mondo materiale e quello celeste. Mediante queste sculture di vetro e ossa, tanto fragili quanto dure e taglienti, tanto trasparenti e lucenti quanto opache, che tanto alludono allo scorrere del tempo e all’inevitabile precarietà dell’esistenza. 


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