Distortion - 53. Biennale Venezia - Eventi Collaterali

Una sede fatiscente di archeologia industriale ospita le opere di nove dei più interessanti artisti inglesi. Accompagnate da didascalie scritte a mano su fogli di blocknotes. Per celebrare il concetto di distorsione nella pittura veneziana del XVI secolo partendo da Leonardo…
Inverte elementi e principi: essa dilata e proietta le forme fuori di sé stesse invece di ridurle progressivamente ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato. Recita il principio di anamorfosi secondo Baltrusaitis, le cui prime rudimentali ipotesi trovano riscontro nella prospettiva intuitiva della prima metà del XV secolo per poi essere applicata da Leonardo nel Codice Atlantico. Poetica dell’illusione, scienza della deformazione, medium che apre orizzonti alla verità occulta approfondendo i meccanismi della percezione, l’anamorfosi viene presa in esame da James Putnam che, nella fatiscente location di archeologia industriale della Gervasuti Foundation, colloca le opere di nove tra i più interessanti artisti della scena inglese. Coinvolti dal concetto di distorsione come espressione creativa inerente alla tradizione pittorica veneziana del XVI secolo e liberamente reinterpretata. Non sempre con esiti originali.



Apparentemente familiari, le sculture di Alastair Mackie ad uno sguardo più attento si rivelano tutt’altro che riconoscibili nel tentativo di esplorare la decadenza esistenziale e l’inevitabile scorrere del tempo. Alla tematica del doppio e alla distorsione che lo specchio conferisce alla realtà, si riferisce Metamorphosis: quattro teche vitree su piedistallo, utilizzate negli anni ‘30 per la tassidermia, sono trasfigurate dalla carta argentata che riflette l‘immagine dello spettatore. Stesso principio di deformazione della realtà che rispecchia l’oscura visione del mondo per Mat Collishaw che trasforma un tavolo vittoriano in un marchingegno astruso con un cilindro metallico incastonato al centro che riflette una scena di tauromachia. Gioca invece d’ironia la coppia composta da Tim Noble e Sue Webster che da cumuli di spazzatura trae l’essenza creativa. Come in Metal fucking rats dove le ombre di due ratti in piena copula emergono grazie alla luce del proiettore puntato su un mucchio di rottami saldati. Ancora materiali di recupero - in questo caso d’epoca vittoriana - per la pittura straniante di Oliver Clegg che genera dal rapporto tra superficie e soggetto, così come Neveroddoreven, emblema di nostalgia e memorie perdute.





Più prevedibile l’installazione di Janet Cardiff e George Bures Miller che prendono alla lettera la tematica con l’amplificatore che può essere attivato tramite un pedale riproducendo le note distorte dell’inno americano ad opera di Jimi Hendrix nella tre giorni di Woodstock. Concludono John Isaacs, con l’imponente e austera scultura Metamorphosis, placata in oro, che avrebbe meritato uno spazio di maggior respiro per essere meglio valorizzata, e Gavin Turk con l’installazione-laboratorio che vede protagonisti quindici busti in creta sapientemente deformati per l’occasione. Ma forse non abbastanza d’invenzione. Per dirla con Leonardo.


Commenti

  1. Interessante e stimolante questo incontro-richiamo tra (postmoderna?) dimensione dell'archeologia industriale ed arte.
    Credo perciò che in questa ottica, la mancanza d'originalità sia tutto sommato, perdonabile.
    Importante, forse più importante lanciare segnali e stimoli.
    Parere di chi di queste cose, però, non capisce moltissimo.
    Ciao.

    RispondiElimina

Posta un commento

I più popolari