Ateros Cuentos 03


È il genius loci, ovvero llo spirito del luogo secondo il mito dell’antica Roma, il cardine intorno al quale ruota la rassegna Ateros Cuentos (altri racconti), giunta al suo terzo ed ultimo appuntamento. Lo spirito di un'abitazione - quella di Sa Dommo Manna - che parla di assenza, di un sovrapporsi di esperienze che non ha avuto luogo perchè quella casa, costruita da oltre un secolo e destinata ad una coppia tragicamente separata alla vigilia delle nozze, non fu mai abitata. Un'entità del luogo mancata ma che non può prescindere dal concetto di contemplazione e ispirazione dal quale origina il progetto di Giuliano Sale, che da vita, appunto, ad "un’altra storia". Cinque tele per dispiegare il racconto di una bambina cieca dalla nascita, isolata nel suo dramma e con la sola compagnia immaginaria di un peluche col quale non riesce ad interagire fino al momento della sua morte. Unico istante nel quale i suoi occhi finalmente si dischiudono e dove la fine appare come liberazione. Una storia fatta di dolore, solitudine ed esperienze mancate, parallela per drammaticità a quella dei due sfortunati amanti. Per Gianfranco Setzu invece, l’interpretazione del genius loci prende un’altra piega puntando sul concetto di domesticità come pretesto per indagare la collettività e raccontare per immagini, o meglio per icone, il caos generale della metropoli. In una fusione tra globale e locale, con tutta l’atmosfera pop che ne contraddistingue l’opera, l’artista staglia, in una delle pareti, un assemblaggio di A4 stampati col plotter dove non tarda ad intravedersi - tra Damien Hirst, Kate Moss, e il lupo della metropolitana di NY - un gruppo di conigli. Emblema di morte nel periodo primaverile, quando tutto oramai inneggia alla vita. Dal colto citazionismo all’ironia tagliente che ritroviamo nella parete opposta dove l’acronimo FART (da flatulenza) - sovrastante gli amplificatori - altro non è che un’esigenza di rimarcarne il concetto di caos come unica condizione dal quale può rinascere la vita.

A causa dell’affastellamento caotico dell’allestimento, le immagini fotografiche di Chiara Porcheddu – tra l’altro già viste in altre occasioni –, perdono di quell’intensità narrativa che solo una selezione più accurata e un’installazione più scarna avrebbero potuto permettere. Fotogrammi evanescenti, sospesi tra sogno e realtà esibiscono una domesticità aliena, al limite dello straniante dove la presenza diventa assenza e il visibile invisibile. Per un’interpretazione del privato come condizione effimera dell’esistenza. Una nota dolente all’interno di quest’ultimo appuntamento della rassegna - sommariamente impostata su interventi efficaci dove è stato il tema della morte a prevalere - è data dall’opera "acerba" di Mauro Morittu, quasi imbarazzante per il basso livello tecnico e per banalità della rappresentazione: una sposa dipinta su un telo di raso bianco il cui lembo estremo, in foggia di strascico, è lasciato cadere dalla tromba delle scale. (r. v. exibart)

Commenti

  1. Anonimo9:54 PM

    Già...dà un pò troppo senso di inquietudine per ricreare un atmosfera di "casa". E mi chiedo com'è possibile chè la critica non abbia inteso il significato allusivo del lavoro di Morittu...

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