Intervista a Gianluca Marjani Marras per il catalogo Le Fleur
Quaranta disegni a matita su carta, com’è nato il progetto Le Fleur?
Il progetto, nella sua dimensione embrionale, è nato durante il periodo del lockdown. È stato un momento particolarmente intenso e difficile della mia vita, avevo da poco perso mio padre e ho dovuto occuparmi di mia madre, malata di Alzheimer. In modo quasi inconscio, la scomparsa fisica e intellettuale delle figure genitoriali, mi ha portato a ricercare quella che ho sempre definito l’origine della storia. È come se in quel momento avessi realizzato quanto breve e grande è la vita, e il fatto che a ciascuno di noi tocchi un piccolissimo segmento di un racconto lunghissimo, terribile e bello.
Ho preso in mano delle vecchie foto di famiglia, e in modo molto spontaneo ho iniziato a disegnare nel modo più semplice, secco e liminale possibile, cercando di rimanere nel
solco della mia poetica incentrata sul tempo. Il progetto poi, grazie all’aiuto e alla visione di Gianfranco Setzu, si è espanso oltre che nel tempo anche nello spazio, ed è diventato una sorta di mappatura cerebrale degli ultimi dieci anni della mia vita. Chiara Manca, che ne ha visto la genesi, ha avuto la pazienza e il coraggio di aspettarmi, fin negli ultimi passaggi creativi, rispetto ai quali ho attinto alla poetica Pavesiana del mito del paese.
Poetico e delicato, come sei arrivato alla scelta del titolo?
La scelta del titolo è stata oggetto di attente riflessioni. In un primo momento avrei voluto utilizzare il titolo Itaca: mi sembrava che il senso di tutto quello che ho disegnato in questi anni fosse un tentativo di trovare la strada di casa, qualsiasi cosa essa sia. È stato Gianfranco Setzu, che in questo senso ha svolto un prezioso lavoro di art direction, a consigliarmi di trovare un titolo più vicino all’impatto concettuale che l’insieme delle tavole provocano su un occhio terzo, facendomi vedere la parte più ottimista del corpus delle tavole. Le Fleur, in effetti, si ricollega al titolo della serie dei primi lavori (di cui ho parlato sopra): come il destino tra la mano e il fiore, un verso della poetessa Cristiana Campo, che mi fa pensare alla fase prodromica di ogni storia che nasce, quando le possibilità sono infinite, e la bellezza del destino brilla nella sua luce più pura. Il fiore è una metafora della nostra esistenza, della sua bellezza e caducità.
Hai dichiarato che non si tratta di un’autobiografia, eppure racconti della tua famiglia.
Credo che sia difficile trovare qualcosa di autentico e rilevante da dire senza partire da noi stessi e senza utilizzare il filtro attraverso il quale viviamo la realtà: in questo senso mi sembra che tutto sia o dovrebbe essere autobiografico, prima di diventare collettivo e universale; quello che cerco di raccontare è solo una parte di un racconto più grande, e ho deciso di farlo utilizzando un immaginario molto intimo, quasi setacciando le diapositive più importanti nel mio ippocampo.
Come un flusso di coscienza, creare un reticolo di immagini distanti tra di loro nel tempo e nello spazio è quasi una catarsi, un tentativo di spiegare come, citando Kaho Nashiki, il tempo non scorre a tutta velocità secondo una linea retta, il presente e il passato si ritrovano allineati davanti ai nostri occhi, nella stessa misura, come se fossero a disposizione per essere esaminati e selezionati con cura.
Definisci il processo creativo delle illustrazioni.
Nel caso di questa mostra non esiste un processo creativo coerente e compatto sin dall’inizio. Ho disegnato tanto in questi anni: in luoghi diversi, in modi diversi, scegliendo soggetti diversi. Ho accumulato moltissime carte e mantenuto un dialogo costante con Chiara Manca, che mi ha appoggiato nell’idea di vedere, in questo grasso e grosso accumulo di graffite e pastelli su carta, un racconto già pronto per essere proposto. È un progetto basato sulla fiducia reciproca con la mia curatrice, e in qualche modo sulla voglia di rischiare proponendo un approccio estetico meno popolare e immediato per raccontare qualcosa di delicato e fragile.
Quale tecnica hai utilizzato e perché?
La mia tecnica preferita, in questo momento, è il disegno a matita su carta. Mi concedo la massima libertà nel lasciar fluire il tratto, per poi ripulire gli originali in digitale, scegliendo e paste diverse rispetto a quelle di partenza. In questo senso, io che ho sempre utilizzato molto gli strumenti digitali, sono tornato a concentrarmi moltissimo sul segno e sulla sua di comunicare: minori sono le manipolazioni del tratteggio originale, maggiore, per quanto mi riguarda, è la capacità di comunicare in modo sincero ed emotivo quello che voglio dire.
Dall’iconografia pop con elementi derivanti dalla cultura nipponica sei approdato ad atmosfere intimiste e malinconiche caratterizzate da cromatismi neutri. Com’è avvenuta questa evoluzione così radicale?
Credo che sia stato un passaggio naturale, ed è coinciso con l’esigenza progressiva di eliminare ogni dettaglio, ogni abbellimento ed ogni decorazione non funzionale ai significati che volevo esprimere. Si è trattato, immagino, di un percorso parallelo alla mia maturazione personale: nel momento in cui il cuore della mia narrazione e della mia poetica ha assunto una dimensione maggiormente emotiva e drammatica, ho sentito il bisogno di adeguare il modo attraverso il quale comunicarla. Penso che sia stato importantissimo, per me, rinunciare ad essere vincolato ad uno stile. La riconoscibilità è fondamentale, ma lo è altrettanto rispettare il proprio rapporto con questa disciplina, che, come dice Yoshitomo Nara, è simile a un’arte marziale.
Marjani: da cosa è scaturito il tuo pseudonimo?
Il mio pseudonimo non ha un significato particolare, combina le lettere iniziali del mio nome e cognome in modo da ottenere la parola sarda marjani, che significa volpe, un animale ricorrente nelle storie di mio nonno materno: in questo senso è fondamentale il suo legame con la mia mitologia personale.
Il tuo sogno nel cassetto.
Il mio sogno nel cassetto, se parliamo di arte, è quello di riuscire ad essere rilevante. È l’unico sogno che coltivo realmente, dire qualcosa che possa sopravvivere nel tempo, senza essere stritolato dalla pletora di immagini che ci sommerge quotidianamente e che toglie importanza a quello che guardiamo.










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