La pittura sospesa di Gastone Biggi




Per la prima volta a Cagliari una cospicua antologica di Gastone Biggi, con la curatela di Claudio Cerritelli, ne scandisce il percorso artistico complesso e poliedrico attraverso 160 opere che coprono un arco cronologico di quasi sessant’anni.


Imprigionato e torturato dai tedeschi nel 1944, riesce a fuggire e viene ricoverato in ospedale per le gravi ferite subite. É qui che Gastone Biggi (Roma 1925, Tordenaso 2014) da inizio alla sua indagine pittorica che concilia con l’attività di saggista e poeta e la passione per la musica. Procede per cicli, nel suo percorso che muove dall’osservazione della realtà, per aprirsi ad atmosfere post-belliche fortemente espressioniste dove emergono pennellate livide e deformi a tracciare gli orrori della guerra.

Agli anni Cinquanta appartengono “Le Cancellate”, momento di transizione che segna il passaggio dal figurativo all’informale e alle sperimentazioni su materiali come sabbie, cere e gessi. La sua attenzione è rivolta all’Espressionismo astratto e da esso trae le sgocciolature delle quali rifiuta spontaneità e gestualità a favore di una modalità “controllata”.




Io non trovo, cerco, cercare il proprio segno è cercare se stessi. Nel continuo frugare, rovistare tra i segni dell’esperienza è il significato delle mie ricerche segniche (..) La nascita del punto è stato l’inizio, per me, di una nuova, lunga, difficile, ma in fondo entusiasmante ricerca. É dalla potenzialità del punto che Biggi rimane folgorato e i cicli “Continui” e “Variabili”, concepiti negli anni Settanta, ne sono l’espressione massima. Il punto diventa il codice espressivo che procede all’infinito. Lo strumento primario per scandire lo spazio, per indagare la variabilità ritmica tra accumulazione rarefazione. Per l’artista si tratta di un espediente conoscitivo che verte a sollecitare la percezione visiva e ad aprire nuove prospettive esistenziali.

Anticipati dai “Cieli” che segnano la ripresa del colore per citare personaggi storici ed evocare luoghi della memoria, i “Canti” degli anni Ottanta, sono contrassegnati da quella gestualità che inizialmente declina, da quel turbinio di colori sferzanti che emergono prepotentemente dal fondo scuro, suggerendo direzioni per aggirare il caos, che tanto lo accostano a Kandinsky nelle “Composizioni” e nelle “Improvvisazioni”.




Credo fermamente nella operazione di un Realismo Astratto, che sembra possa coniugare insieme l’Alfa e l’Omega della realtà e del sogno, anche perché il mondo non ha bisogno di antichi e nuovi dolori, ma piuttosto, io credo, di nuove serenità e nuove bellezze, scrive nella chiosa del Manifesto del Realismo Astratto del 2005, in netta contrapposizione a quella pittura impegnata che considera come vera e propria tragedia culturale. A questa corrente appartengono gli ultimi cicli dedicati a New York, ma anche le traiettorie degli aironi, per approdare alle “Puntocromie”, dove fluttuano galassie e gravitano universi, e concludere con i piccoli Fleurs nel 2010. L’ultima opera, “Partitura firmamentale”, scarna e oscura, appare, invece, come il preludio della fine.

Coprono un arco cronologico di quasi sessant’anni, le 160 opere in mostra tra dipinti e “Carte”, permettendo una visione esaustiva dell’intero percorso dell’artista romano che mai ha lasciato nulla al caso, grazie all’attenta disamina di tutto ciò che ha vissuto e incontrato nel suo lungo cammino, poiché la pittura è il respiro pensante di una mano, è la vibrazione invisibile dell’infinito, è la riproposizione in segno e colore degli umori stessi dell’uomo e della natura.

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