Ti ho uccisa 32 volte di Ruben Mureddu

 

“E difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.” 

(da “Supplica a mia madre” di Pier Paolo Pasolini)

Suggella il rapporto sacro con la madre, Ruben Mureddu, sottolineandone al contempo la pesante conflittualità. Un rapporto viscerale, quasi morboso, con una madre fagocitante suo malgrado. La stessa madre che risiede nell’inconscio collettivo e in quello di tutti i figli di sesso maschile che mal riescono a separarsi dal più grande e incondizionato amore. Benigna quanto matrigna, santa quanto carceriera, ma anche bambina, autoritaria, onnisciente e simbiotica dal momento che, a detta di Jung come ogni archetipo, anche quello della madre possiede una quantità pressoché infinita di aspetti.

Tra contrasti e tregue, l’artista muove da quello che è il più profondo, antico e primordiale legame, quello che l’ha creato e nutrito, che l’ha reso inesorabilmente dipendente nonostante tutto. Potenza primigenia della natura creatrice ma anche spiritualmente mortifera, nutrice ma anche divoratrice, la figura materna è contraddistinta da una forte ambivalenza che nell’immaginario collettivo acquisisce una valenza spiazzante. Nel bene e nel male la relazione madre-figlio è, infatti, determinante per quella che sarà la percezione di sé stessi e del mondo poiché influisce sulla capacità di instaurare relazioni affettive. Ed è su questo aspetto che l’artista si concentra per liberarsi dalle maglie troppo strette di un amore castrante e, per superare quello che può essere definito il “complesso materno”, recide il cordone ombelicale per ben 32 volte. Uccidendo interiormente la madre onnipresente per far spazio ad altre donne ma con la consapevolezza che quando viene reciso il cordone ombelicale, permane un profondo desiderio di cancellare la separazione, di tornare nel grembo o di trovare una nuova situazione di protezione e sicurezza assolute, per parafrasare Erich Fromm.

Trentadue sono i ritratti delle donne che hanno fatto parte della vita dell’artista. Trentadue come le volte che Ruben Mureddu ha messo da parte il rapporto di dipendenza, fisica ed emotiva, da una madre simbiotica per sopravvivere e ricominciare ad amare. Sono come tessere di un puzzle che vanno ad incastrarsi l’una con l’altra ad iniziare dal ritratto della genitrice, denominato numero 0, e terminare con alcune protagoniste contestualizzate nell’ambiente a loro più congeniale con una tecnica pittorica d’impatto e sapientissima ad alto livello espressivo.

Acuto e spietato osservatore, Ruben Mureddu ha infatti la capacità di scavare con maestria nei meandri dell’inconscio umano. Di affondare la lama nelle ossessioni dell’immaginario collettivo, del disagio esistenziale e nel senso di colpa che flagella l’individuo, nel tentativo di sviscerarne il lato più oscuro. La sua è una pittura catartica con una forte valenza d’introspezione terapeutica dove ritratti e nudi sono restituiti con una maniacale attenzione al dettaglio anche quando, come scelta consapevole, essi risultano non finiti nel tentativo di superare il concetto di forma. Oltrepassare spazio e tempo per conquistare l’infinito ed esprimere il non detto attraverso immagini sospese in continua tensione. In un complesso sistema di stratificazione della memoria dove s’individua prontamente l’angoscia del tempo che scorre inesorabile e l’urgenza di ricordi che non si hanno il coraggio di lasciare all’oblio. Non a caso è nello sfumato, nello sfilacciato, nel disperso, nell'impuro, negli abbozzi di descrizioni di particolarità che si rifiutano di venire generalizzate, che s’individua il senso di piacere davanti all’opera d’arte, come osserva Gilbert Lascault. Le pennellate, corpose e incisive, indagano la profondità psicologica che si cela dietro ogni sguardo, scardinano il lato umano attraverso le relazioni con l’altro, al di là del ritratto meramente oggettivo.

Tra espressionismo e realismo, l’artista spesso si muove tra le forme opulente della carne, tra corpi debordanti al limite della deformazione che tanto lo accostano a Lucian Freud e Genny Saville e alla gestualità applicata alla forma del russo Alex Kanevsky. Il mio gesto pittorico è un gesto sofferto, che perdo, cerco e ritrovo costantemente. Mi sono chiesto se questo segua l’istinto o sia il risultato di una scelta ponderata senza mai trovare una risposta definitiva se non la sensazione che il continuo alternarsi di appropriazione e perdita faccia parte del naturale evolversi dell’uomo-artista con la sua opera. Gesto potente e impetuoso, carico di energia capace di catturare gli stati emozionali più reconditi ed esorcizzare i mali del mondo.


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