Muralismo e street art in Sardegna
Per approfondire alcuni aspetti legati al muralismo sardo abbiamo intervistato la storica dell’arte Silvia Ledda, referente scientifico della catalogazione dei Beni Culturali in Sardegna tra cui i murales.
R. V. Qual è la differenza tra muralismo e street art?
S. L. Il muro è un mezzo che ha affascinato da sempre gli artisti, dà la possibilità di creare opere di grande impatto emotivo, di suggestionare il fruitore in maniera straordinaria. Pensiamo alle tante commissioni pubbliche e private per la realizzazione di affreschi a partire dal medioevo, o a come, in Italia, questa tradizione fu recuperata in epoca fascista, quando furono coinvolti alcuni tra i più importanti artisti italiani, Sironi in testa. Oppure alla grande stagione del muralismo messicano. Il muralismo contemporaneo, invece, vede l’artista agire incidendo profondamente nel contesto urbano, a volte in maniera positiva, altre volte negativamente, ma sempre in assoluta libertà; un capitolo fondamentale è quello della street art, che affonda le proprie radici nella New York degli anni ’70 e che negli anni ’80 ha visto affermarsi personalità chiave per la storia dell’arte contemporanea quali Rammellzee, Lee Quinones, Keith Haring, Jean Michel Basquiat. Ritengo errato l’uso del termine graffito usato come sinonimo di murale: dovrebbe essere utilizzato solo nel caso in cui l’artista incida sulla superficie ragionando sul rapporto luce/colore in maniera molto differente rispetto alla pittura. Pensiamo, per esempio, ai capolavori di Nivola oppure ai notevoli esiti raggiunti da Antonio Porru.
R. V. Quali sono le ragioni che fanno della Sardegna la regione italiana con la più alta concentrazione di murales?
S. L. In Sardegna abbiamo avuto uno straordinario artista come Pinuccio Sciola che ha avuto la felice idea di fare San Sperate un “paese museo”. Siamo nel maggio del ’68, Pinuccio è appena tornato da un viaggio di studio in Europa; riunisce intorno a sé alcuni tra i più importanti artisti sardi e colleghi da varie parti d’Europa, coinvolge la popolazione, dà l’avvio a quello che può essere definito come uno dei pochi esempi di arte ambientale in Italia compiutamente realizzato, proprio per questa sinergia tra artista e fruitore: l’arte definisce lo spazio pubblico e acquista una specifica valenza proprio perché chi lo abita la sente propria. Gli anni d’oro di San Sperate paese museo continuano sino ai primi anni ‘80; Il fermento culturale è enorme, arrivano anche artisti dal Messico, dal Cile, si fa teatro a livello internazionale conquistando l’attenzione della stampa a livello internazionale ed ottenendo l’invito alla Biennale di Venezia. Così il murale è diventato il megafono che dà voce ai sardi ed il muralismo si è diffuso a macchia d’olio, a cominciare da Orgosolo, con Francesco del Casino e da Onanì, con Diego Asproni.
R. V. Quali sono i muralisti e gli street artisti più prolifici in Sardegna?
S. L. I muralisti più prolifici sono coloro che seguono ancora il filone inaugurato da Antonio Pilloni, muralista al fianco di Sciola fin dalla prima ora, perché ottiene un grande consenso popolare. Si riprendono le tematiche della pittura sarda della prima metà del Novecento: le tradizioni popolari, le sagre religiose, la dura vita di contadini e pastori, quella quotidiana nei paesi; il tutto raccontato con estrema attenzione per i dettagli, spesso con ritratti di persone realmente esistite. Fino all’inizio degli anni ‘Ottanta il muralismo era anche arte di protesta contro la mancanza di lavoro, le condizioni di vita nelle fabbriche, le devastazioni ambientali, l’occupazione del territorio con le basi militari. Altri ancora hanno proseguito la sperimentazione che portavano avanti anche su tela o nella scultura, come lo stesso Sciola o Foiso Fois, Gaetano Brundu, Tonino Casula, Ermanno Leinardi, Luciano Muscu. La vera sperimentazione, ad oggi, è quella che fanno i giovani che si inseriscono nel filone della street art, tra i sardi cito Skan, La Fille Bertha, Andrea Casciu, Tellas, Crisa, Daniele Gregorini, Giorgio Casu.
R. V. Cosa pensi della triste vicenda del celebre murale di Pinuccio Sciola in Piazza Repubblica a Cagliari?
S. L. Molti artisti contemporanei non pensano che le loro creazioni debbano avere una vita eterna. Anche Pinuccio concepiva il muralismo come un’arte effimera, la stessa cosa accade nell’ambito della street art. Il fruitore, invece, vorrebbe non perdere quelli che concepisce come capolavori, a volte il corto circuito è traumatico. Nel caso di opere realizzate in muri di proprietà privata sono da tutelare sia i diritti d’autore sia quelli del il proprietario del muro. La legislazione italiana, inoltre, prevede un vincolo per la proprietà privata solo in casi di eccezionale valore e comunque solo per opere di artisti non viventi e realizzate da oltre cinquant’anni. Aggiungiamo che la preparazione artistica dell’italiano medio è scarsissima e quindi è poco attento alla tutela del patrimonio culturale, che gli storici dell’arte in organico negli enti pubblici sono pochissimi e che quasi mai abbiamo assessori (o ministri) con competenze specifiche. Forse, nel caso di Sciola, una cittadinanza consapevole ed Istituzioni composte da persone competenti avrebbero potuto fare la differenza; magari si sarebbe potuto proporre un finanziamento pubblico finalizzato al restauro per tentare di convincere i proprietari a non cancellare l’opera.
R. V. In quale stato versano i murales dei principali centri sardi?
S. L. La diffusione del muralismo ha comportato la realizzazione di opere di indubbio valore, oltre ai casi citati vorrei menzionare almeno altri due paesi che hanno fatto la storia del muralismo sardo, Serramanna e Villamar e, al giorno d’oggi, Sadali, Sassari, la Galleria del Sale di Cagliari, San Gavino Monreale. Non c’è stato il coraggio, però, da parte delle amministrazioni comunali, di studiare l’impatto delle opere nel tessuto urbano e di operare selezioni, con la consulenza di urbanisti e storici dell’arte, e non si è evitata, quindi, la proliferazione di opere prive di alcun valore artistico. Sono molti, però, i murales perduti che avremmo dovuto tentare di salvare ed altri che lo meriterebbero e che stanno, invece, scomparendo. A Monastir ed a Settimo San Pietro abbiamo pezzi di storia dell’arte contemporanea che stanno morendo nell’indifferenza generale. Ferme restando le problematiche descritte sopra si potrebbe tentare di fare qualcosa, proporre ai proprietari un finanziamento finanziato al restauro, intendendo con questo il recupero dell’opera nel totale rispetto dell’originale. Quindi uno storico dell’arte dovrebbe fare uno studio storico-artistico preliminare ed il lavoro dovrebbe essere affidato a persone competenti. In molti centri, invece, proprio perché la consapevolezza è scarsa e l’attenzione delle Istituzioni nulla, ad intervenire sono incompetenti, per quanto armati di ottime intenzioni.
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