Into the wild - La mostra
Into the wild è una riflessione sul rapporto uomo/natura in epoca contemporanea e sulle condizioni tutt’altro che ideali in cui quest’ultima versa a causa dell'agire superficiale dell'uomo, nel tentativo di bloccarne il suo slancio vitale che la dirige verso un’evoluzione creatrice, per parafrasare Bergson. Riflessione obbligata per la precarietà di un pianeta sull’orlo del collasso, dato che il sogno alchemico, la ricerca della chiave che apre i segreti dell’uomo e della natura, non verrà mai abbandonato. Ma vuole essere anche motivo di confronto fra artisti con differenti background che attraverso il medium pittorico riflettono sul rapporto tra l’uomo e la natura in epoca contemporanea.
Ambito, quello della pittura, che nell’ultimo decennio ha subito un profondo mutamento rispetto alla Nuova Figurazione degli anni ‘90 per la capacità di guardare contesti come pubblicità, fumetto, illustrazione, cinema, web, musica e graffiti, senza trascurare la tradizione pittorica dei maestri, dal Rinascimento alle Avanguardie. In una contaminazione tra cultura alta e cultura bassa, sono emersi linguaggi definiti Neo Pop - solo in parte ispirati alla Pop Art storica - tendenzialmente caratterizzati da un insieme di fonti iconografiche e da diverse declinazioni stilistiche e tematiche. Quella delle ultime generazioni è quindi una pittura ibrida proveniente dalla cultura di massa che rispecchia l’epoca contemporanea nelle sue contraddizioni e conflitti attraverso il filtro del gusto grottesco ma anche fantastico, quando non è ironico o irriverente.
Un immaginario multiforme che spesso si tinge di nero per evidenziare aspetti irrazionali di un’umanità alienata in balìa di ansie e ossessioni. Così come avviene all’interno della tendenza estetica Neo Gotica che indaga il lato oscuro dell’esistenza e alla quale appartiene l’opera di Giuliano Sale che traccia lo spettro di una natura inquietante, matrigna e terrifica che lava il sangue delle sue vittime nelle acque dell’oblio. In uno scenario cupo e desolato, sospeso tra sogno e incubo, preso in prestito da visionari come Böcklin e Friedrich, per riallacciarsi grottescamente all’aforisma di Byron: c’è una gioia nei boschi inesplorati, c’è un’estasi sulla spiaggia solitaria, c’è una vita dove nessuno arriva al mare profondo.
Stesso ambito anche per Daniele Serra, la cui opera origina da una visione dell’uomo come parte integrante della natura, ma incapace - nella sua individualità - di comunicare con essa. Con conseguenze che sfociano in calamità naturali, dall’impetuosità devastante, che non possono non ricollegarsi a Turner e alla sensazione panica che le sue opere trasmettono. Atmosfere sinistre e solo apparentemente silenziose identificano la natura matrigna e ostile di Alessio Onnis, dove una casa desolata, inserita in un ambiente aspro e selvaggio, altro non è che l’illusione di un rifugio dove l’uomo si scopre improvvisamente recluso. La sensazione di pericolo imminente e la presa di coscienza di ciò ben si coniugano allo stato plumbeo di quell’espressionismo che rientra nell’area nord europea.
Lo stesso che riguarda la pittura introspettiva di Silvia Argiolas che, tra ibridazione e mutazione, asseconda un’umanità che non può prescindere dal paesaggio, in una perfetta armonia che unisce uomo e natura e al tempo stesso li respinge. Il suo è uno sguardo autobiografico sulla solitudine interiore che diventa isolamento e alienazione. In un contesto dove personaggi antropomorfi seguono il ciclo morte-rigenerazione finalizzato all’unione viscerale tra natura e umanità in cui l’uomo sembra recitare: io sono la natura massima entità e i nostri occhi sono uguali al cielo.
Attinge alla poetica Simbolista e in parte a quella Preraffaellita, la visione surreale di Nicola Caredda dove una natura incontaminata e lussureggiante si apre davanti allo sguardo di un inquietante Cristo Uno e Trino. Tra sacro e profano, la minuta e particolareggiata descrizione del paesaggio, unita all’atmosfera fiabesca fatta di sottili metafore, delinea l’appartenenza dell’artista all’universo underground di graffiti e tattoo, in un linguaggio colto e al tempo stesso popolare. Stesso discorso per Paolo Pibi la cui pittura enigmatica, dalle atmosfere campestri e i toni lievi, è più incline a quella tendenza definita Neo Folk fatta di atmosfere surreali e temi tratti della tradizione popolare.
Nasce dalla serie Dissolvenze, l’opera che indaga sul precario equilibrio tra uomo e natura attraverso l’anima mundi, principio universale secondo cui gli tutti gli organismi sono parte di una comune anima. Sempre alla tradizione, ma stavolta di stampo tardo-medievale, guarda il boia di Cane Celeste - archetipo dell’uomo tratto dalla serie Spoon River - ispirato alla pala d’altare Crocifissione con donatore di Hieronimus Bosch per mettere l’accento sulla natura malvagia dell’uomo che ha come conseguenza la morte per sopraffazione. Nel tentativo di creare un effetto destabilizzante per la commistione tra passato e presente.
Sulla linea di confine tra figurazione ed astrazione s’inserisce l’opera di Pastorello dove natura e natura della pittura sono tutt’uno, poiché le leggi della natura governano il mondo quanto le leggi della pittura dominano l’opera. In un contesto metafisico, dove l’assenza è anche presenza inquietante, fondato sulla rigorosa semplificazione e il geometrismo formale, fatto di alberi tubolari sospesi nel vuoto che non proiettano ombre dal momento che tutto è luce e pittura. Al suo misurato equilibrio formale e alla linearità sintetica si contrappone l’irrazionale codice espressivo infantile - di un linguaggio volutamente ingenuo -, di Silvia Mei il cui messaggio bucolico è quello di riscoprire urgentemente il senso della vita e la propria appartenenza attraverso la natura, affinché l’uomo non dimentichi le proprie radici capaci di metterlo in relazione col tutto.
Monito non lontano da quello messo in scena da Stefano Cozzolino che intende rappresentare i sinistri presagi di una natura minacciosa e l’angoscia dell’individuo di fronte alla sua immensità. Una situazione allarmante, al limite del degrado, nata dal repentino e invasivo progresso tecnologico, sfociato nel più sfrenato consumismo, a discapito di una natura che inevitabilmente sembra soccombere. Così come si legge nell’opera di Gianni Nieddu, dove un’umanità allo sbando, incarnata da una limousine, da potenza imponente trasmuta in innocua “macchina” davanti alla grandiosità della natura, convulsa e travolgente, simboleggiata da vorticosi tornanti.
Più vicino ad un’estetica prettamente pop, quella Nicola Mette è una pittura liquida e immediata che fa da sfondo ad una linea grafica raffinata che prende in prestito la favola del Leone e del Cervo adeguata a rappresentare un meccanismo di causa-effetto, dove un rinoceronte, braccato dall’uomo per le sue preziose corna, da vittima si trasforma in carnefice. Esortazione a non sottovalutare la capacità di autodifesa della natura. Appartenente a quella che è denominata Scuola di Lipsia, l’opera di Gavino Ganau si sviluppa invece all’interno di una dialettica metaforica tra uomo, natura e cultura. In un contesto naturale alterato si muove la figlia dell’artista a rappresentare la trasmutazione dell’uomo in un individuo “altamente” civilizzato, fagocitato da sé stesso, la cui esigenza più urgente è quella di mantenere il proprio status sfruttando le risorse del pianeta. Per non dimenticare che, per citare Shakespeare, se si concede alla natura nulla di più dello stretto indispensabile, la vita dell'uomo vale meno di quella di una bestia.
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