Mi amo e mi nutro

Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso

sei un granello di colpa

anche agli occhi di Dio.


(Alda Merini da “A tutte le donne”)




Maltrattate, umiliate, stuprate. Sfregiate, lapidate, infibulate e uccise. Donne discriminate, fatte a pezzi nel corpo e nell’anima. Private della loro innocenza, recluse, svuotate d’ogni dignità. Vittime di se stesse e degli uomini con la sola ed unica colpa di appartenere al sesso femminile. Moltiplicherò i tuoi travagli ed i tuoi parti; partorirai tra i dolori i tuoi figli; sarai sotto la potestà del marito, ed egli ti dominerà (Genesi 3, 1-16). Punita dall’umanità e condannata a causa del peccato originale, la donna - inconsapevole responsabile della cacciata dall’Eden - continua a subire una sorta di maledizione messa in atto dai Padri della Chiesa e rigorosamente seguita dal genere maschile dalla notte dei tempi. Poiché la misoginia è la risposta della nostra società agli insegnamenti del cattolicesimo, ad iniziare da Sant’Agostino che la reputa un essere inferiore creato da Dio non a sua immagine come invece l’uomo. Inevitabilmente schiava, destinata esclusivamente alla procreazione in quanto spiritualmente e fisicamente inferiore, essa è addirittura un errore di natura, una sorta di maschio mutilato, sbagliato, non riuscito, a detta di San Tommaso. Creatura dimidiata e bestia idrofoba - così l’appella Lutero - per la quale si è discussa l’appartenenza al genere umano a causa della sua triplice inferiorità. Così mentre l’uomo è immagine e gloria di Dio la donna è gloria dell’uomo (San Paolo, I Lettera ai Corinzi, XI).

Mi amo e mi nutro è il risultato di un audace quanto inconsueto connubio tra due artiste, in antitesi tra loro per modalità espressive e interpretazione della realtà, che esplorano la drammaticità dell’universo femminile portando a galla cicatrici impresse nella memoria, costrizioni, ricatti fisici e morali e discriminazioni che ancora incombono nonostante le lotte ne abbiano legittimato i diritti. In un confronto a due che è anche un complesso percorso autobiografico.

Tra ironia e provocazione, Elisabetta Falqui attinge dall’universo mediatico, dalle riviste glamour e dal concetto di griffe come status symbol, per una ricerca estetica orientata verso un minimalismo scevro da quella patina di freddezza che lo contraddistingue. Cosa è più bello della luce che, benché in sé priva di colore, restituisce i colori a tutte le cose illuminandole? Ed è proprio la luce, nell’accezione comune a Dan Flavin e Bruce Nauman, a fare da protagonista e che ritroviamo nelle forme pure e geometrizzanti delle installazioni al neon che si alternano a quelle in metallo satinato ad invocare una sorta di cantilena (Io mi amo, Sono stupenda, Sono grandiosa, Sono fantastica, Sono meravigliosa); litanie di un mantra da ripetersi in successione per esorcizzare il male e rimettere insieme i pezzi. Metodo infallibile di autosuggestione da citare senza sosta all’occorrenza. Conseguenza di Sante subito a pezzi, porzioni di corpi ad emblematizzare la mutilazione e lo smembramento fisico e psicologico, che confluisce nella serie di fotografie di piccole dimensioni, dove fashion victims alla Sylvie Fleury implorano se stesse per ricostruirsi. Icone ritagliate su uno sfondo lattiginoso sono bloccate nel gesto dell’umile supplica per riconquistare quell’amor proprio negato. Secondo una concezione glamour che le vede in abiti griffati prostrarsi al suolo, nel tentativo di rimarcare che lo status cambia ma non il dolore, nonostante la visione artificiosa della realtà.

L’universo femminile patinato di Elisabetta Falqui si contrappone a quello di Monica Lugas che concepisce, invece, una realtà senza sovrastrutture con un uso provocatorio del corpo elaborato in maniera anticonvenzionale sovvertendone la forma a favore del significato. Concetto leggibile nella Vergine, dove un assemblaggio di forme al primo sguardo riconoscibile risulta essere altamente straniante per la controversa percezione sia tattile che visiva ma che infine altro non vuole essere se non la trasfigurazione di un utero. Il corpo è il nostro comune denominatore e il teatro dei nostri piaceri e dei nostri dolori. Attraverso esso voglio esprimere chi siamo, come viviamo e come moriamo. Il corpo come imprescindibile oggetto di riflessione è alla base della ricerca intimista dell’artista che connatura Lunàdiga come una bestia sterile - trasposizione della tragicità della condizione femminile, che non è fisiologica bensì sociale -, mediante candidi seni ingabbiati, lungi dall’essere oggetto del desiderio e che ritornano in Imperfetta. Serie di fotografie in bianco e nero, tasselli di una realtà che si svela sotto un’impietosa lente d’ingrandimento, uno sguardo quasi voyeristico che si sovrappone al gesto artificiale delle mani che scrutano tra seni veri e seni posticci. Gli stessi che l’installazione Mi sono nutrita esibisce senza soluzione di continuità a tappezzare le pareti.

E se per Elisabetta Falqui il bianco è luce, spazio neutro di uno scenario fuori da ogni tempo e luogo dove i suoi protagonisti si muovono indisturbati, per Monica Lugas è indice di purezza, beatitudine e soprattutto ritorno alle origini primigenie. Considerate l’eterogeneità delle premesse non stupisce, quindi, se la prima affida l’esecuzione allo strumento meccanico e la seconda fonda il modus operandi nell’elaborazione artigianale in una coalizione al limite della diversità. Per tracciare i confini di due universi agli antipodi che si incontrano all’unisono ad avvalorare che amore e nutrimento insieme equivalgono a vita e che, parafrasando Jenny Holzer, nell’ultimo decennio le donne hanno dato vita alle forme d’arte più coraggiose e da un punto di vista psicologico il loro lavoro è molto più estremista di quello degli uomini.






1 Ugo di San Vittore, Commento sulla gerarchia Celeste di Dioniso, 1137

2 Kiki Smith in Le donne e l’arte, a cura di Uta Grosenick, pag. 308, Taschen 2008.




Testo in catalogo della mostra di Elisabetta Falqui e Monica Lugas "Mi amo e mi nutro" che sarà inaugurata venerdì 16 aprile alla Galleria La Corte Arte Contemporanea a Firenze


Commenti

  1. ciao Roberta,
    sono Damiano come va? il mio email è damianousala@gmail.com mandami il tuo

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  2. Ciao Damiano, che piacere risentirti, tutto è più o meno ok... e tu come te la passi? questa è la mia email
    roberta.vanali@gmail.com
    fatti sentire, baci

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  3. Ciao Roberta..
    il tuo blog e' bellissimo, solo ora l'ho scoperto. Mi aiuta nell'aggiornamento e mi arricchisce.grazie..a presto.
    PATRIZIA BRUNO
    http://artenaturaedintorni.blogspot.com/

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