ObFashion. Vittime della griffe





Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile. (Italo Calvino)
Stare irrefrenabilmente al passo con mode effimere, ipnotizzati da pubblicità mascherate da packaging accattivanti. Abbandonarsi all’ossessione del marchio, alla sindrome dello shopping compulsivo per garantirsi l’appartenenza ad un’élite, per soddisfare lo sfrenato edonismo o più semplicemente per sopperire bisogni sempre più spesso latenti. Attingendo dal metropolismo di De Pascale che concepisce la griffe come status symbol, Elisabetta Falqui muove dal connubio tra arte e moda per prendere in esame l’universo consumistico e i codici di omologazione della società contemporanea, satura di slogan, griffe e spot. In Ob-Fashion tutto concorre ad esplorare l’ossessione feticista della moda e la seduzione dello shopping come elemento incondizionatamente legato alla quotidianità, che non si limita al coinvolgimento dell’universo femminile ma si estende anche agli stereotipi maschili. Non lontana dall’ironia provocatoria che permea l’opera glamour di Sylvie Fleury, la frenesia consumistica assume in questo frangente un’accezione ambigua sconfinante talvolta nella patologia ed in parte accostabile alla drammatica visione del potere di consumo, della società americana, descritta impietosamente da Tom Sachs che indaga l’inquietante metamorfosi dell’oggetto nel passaggio da merce preziosa ad elemento inutile.



La derivazione dalla cultura pop dei marchi tridimensionali si ritrova nell’assemblaggio di firme sotto vetro e nell’installazione fotografica dove le immagini patinate si concedono all’ansia abulimica del consumatore globale, tra le ironiche posture impacciate della fashion victim di turno, che nella febbre d’acquisto accumula bags griffate, e le pose plastiche - con dichiarati echi alla statuaria classica - dei protagonisti immortalati. La purezza esasperata delle immagini costruite con cura maniacale, la predilezione di pose palesemente tratte da stereotipi mediali e le espressioni ammiccanti sottolineano una visione artificiale di una realtà nell’era cruciale della simulazione.
L’ossessione di possesso, la mercificazione della cultura e la degenerazione del consumo sono alla base del ritratto spietato, ma al contempo ironico e che non prescinde da una certa leggerezza estetica, di una società standardizzata ed alienante dove l’individuo cede il proprio corpo, negando l’identità di appartenenza, per tramutarsi in facile strumento di diffusione del logo. Tra artificiosità e provocazione, per Elisabetta Falqui il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare - per parafrasare Baudrillard - dominato dal simulacro dei media. Vittima inconsapevole della griffe. (R.V.)



(Scritto tratto dal catalogo della mostra personale di Elisabetta Falqui ObFashion che sarà inaugurata il 10 marzo, alla Galleria La Corte Arte Contemporanea a Firenze)

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