Aligi Sassu



Sassu ha rivendicato, praticato e mantenuto il suo universo poetico nello scorrere quotidiano dell’esistenza come nella dimensione storica degli snodi cruciali dell’epoca cui è stato confrontato (R. Chiappini). Si colloca nel quadro della ricostruzione futurista, l’esordio di Aligi Sassu (Milano, 1912; Maiorca, 2000), quando giovanissimo, travolto dalla poetica boccioniana, conosce Marinetti che lo introduce nella mostra veneziana del 1928. In esposizione, a rappresentare il primo periodo, “I minatori”, “I pugilatori”, “Nudo plastico” e una serie di piccoli disegni realizzati a matita. E’ datato 1929 il “Nudo” morbidamente adagiato ma violento nei cromatismi e nella decisa linea di contorno che definisce le forme e nel contempo ne determina l’allontanamento dalla breve fase futurista introducendo l’artista all’estetica primitivista. L’indagine confluisce nella serie degli antinaturalisti “Uomini rossi” e dei “Ciclisti”. A seguire il ciclo dei “Caffè” - iniziato dopo il trasferimento a Parigi tra il 1934 ed il 1940 - e la serie degli “Argonauti” e delle “Maison Tellier”, di matrice spietatamente espressionista ispirate da una novella di Maupassant. A quest’ultima fase appartengono le opere più cruente dell’artista, dalla materica “Fucilazione nelle Asturie”, riflessione sull’insurrezione avvenuta nel 1934 in Spagna, presagio della guerra civile, ai martiri di “Piazzale Loreto” a proposito del quale affermava: eppure vi era in me, nel fuoco e nell’ansia che mi agitava, nel cercare di esprimere quello che avevo visto, una grande pace e non odio, ma una tristezza immensa per la lotta fratricida.



Tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta sviluppa una pittura definita realista, dallo stesso Sassu, attraverso la raffigurazione del lavoro quotidiano. Ambirei essere chiamato realista perché ogni opera consiste nel tradurre una qualsiasi realtà ideale o formale per giungere a quell’apparenza che è la sintesi dei fatti obiettivi. In mostra a concretizzare questo spirito la drammatica “Mattanza”. Tra gli anni Sessanta e Settanta si collocano le “Tauromachie”, inserite ancora nel contesto realistico ma stavolta in bilico tra realtà e mito. Chiudono l’esposizione i celebri “Paesaggi maiorchini”. I miei maestri sono gli uomini del sangue, dello spirito nella materia che fermenta di colore sanguigno che trascolora nella porpora e nell’oro, dei verdi tristi della pace e della morte, della realtà bianca dei caffè, il sangue pallido e le luci rosa carne dei postriboli e dei bar dove la vita si trascina e ribolle, morbida vita che si finge realtà.

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