Studio d'Artista: Ruben Mureddu
Muove da una lucida e spietata analisi della società contemporanea, il pittore algherese Ruben Mureddu classe 1979, traducendo drammi e inquietudini che flagellano la nostra epoca. Con tratto impetuoso e sicuro e un approccio altamente incisivo, in un riuscito equilibrio tra crudo espressionismo e impietoso realismo, rivela il lato più oscuro dell’umanità, talvolta al limite dell’aspetto grottesco. Ossessioni e disagio esistenziale sono anche congeniali a una visione introspettiva favorita dalla scelta volontaria e consapevole del non finito.
Raccontati con tre aggettivi. Severo, fisico, prudente
Qual è la tua formazione e quali gli artisti di riferimento? Nel 2006 concludo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Sassari “Mario Sironi”, nella cattedra di pittura. Arresto lo studio artistico, la ricerca e la produzione per trascorrere anni di viaggio tra Francia (Lione, Parigi, Strasburgo), India e sud-est asiatico, in un’alternanza tra fuga e ricerca di un centro interiore.
Nel 2010 rientro in Sardegna, nel 2011 firmo il primo contratto in un progetto sperimentale di Arte-terapia, presso i padiglioni psichiatrici-residenziali delle comunità protette di Rizzeddu, Sassari. Ex Manicomio. Nel 2013 concludo un Master di I° livello sulle arti-terapie, tecniche e metodi di intervento, all’Università degli Studi “ROMA TRE”, contemporaneamente al lavoro d’equipe multisciplinare nelle comunità psichiatriche di Sassari che, come detto, iniziò nel 2011 e proseguì fino al luglio del 2017.
Non ho ben chiaro quali siano i miei artisti di rifermento, non ho l’abitudine di studiare con attenzione artisti o correnti, per quanto non mi faccia mancare visite a mostre, gallerie, musei e altro. Sono sicuro di ricevere stimoli, spunti, ispirazioni e suggestioni da parte di artisti contemporanei e del passato, ma non sono solito memorizzarne nomi e date e tutto quanto riguardi la loro letteratura. Assimilo piu o meno inconsciamente e credo di appropriarmene comunque.
È possibile che dipenda da una inconscia paura di perdere la mia unicità, o di contaminarla al punto da influenzarla e impedirne o rallentarne l’estensione. Ma questa è solo una mia lettura. Ricordo che da ragazzo, nel periodo di studi liceali e accademici ero attratto dai pittori espressionisti e piu in generale dalla letteratura e dall’arte mitteleuropea.
Quando hai capito che ti saresti dedicato alla pittura? Ho un aneddoto a questo proposito anche se credo sia una risposta solo parziale: da bambino abitavo con la mia famiglia in un posto tanto bello quanto isolato. Ricordo che ero nelle scuole elementari e che un giorno mia madre mi regalò un cavalletto da campo, un kit di colori acrilici pennelli e delle tele. Li il tempo era sempre dilatato dalla scarsità di dinamiche così iniziai a prendere con maggiore serietà quello che prima di allora facevo come fa la maggior parte dei bambini: parlare anche con il colore, con il segno e le immagini. Se invece del cavalletto mi fosse stato regalato un violino o una batteria?
In realtà non credo che un artista capisca o decida di dedicarsi a questa o quell’arte. Credo sia più frequente che si inneschi una sorta di attrazione, di richiamo reciproco che segue un iter di equilibrata alternanza tra frustrazione per la fatica nell’espressione e rinforzo dato dalla gratificazione della buona riuscita. Se il processo non si interrompe per i più disparati motivi, la padronanza di linguaggio aumenta, gli argomenti da narrare diventano più arditi e complessi e da gioco l’attività diventa passione e da passione in alcuni casi diventa mestiere e in casi più fortunati un mestiere maturo.
Quali concetti t’interessa maggiormente sviluppare? L’Arte è solo una delle forme di comunicazone di cui disponiamo. La ragione per la quale integro l’arte visiva alle costituite modalità di espressione e scambio è che ritengo queste insufficienti a permettere a pieno il bisogno di ognuno di definirsi. Linguaggi trasversali quali le arti, in tutte le loro forme, consentono una più completa esplicazione di noi. E a questo punto credo di avere bisogno di definirmi. Questa la risposta ai concetti che sviluppo maggiormentee al perchè dipingo e perchè altri si scomodano a farne esperienza. Si tratta di una spinta interna. Non ci sono altri fini se non quello di conoscermi in relazione all’esterno, dal quale estrapolo i soggetti che altro non sono se non proiezioni di me e dall’interno, subblimando il materiale in un oggetto artistico per offrirlo all’altro.
Eseguo una estrazione. Sposto da me una immagine esponendola all’esperienza collettiva. Ora il peso dell’immagine non è più solo mio ma è condiviso. Io posso adesso dare spazio e conoscere l’immagine successiva e quella precedentemente estratta si carica di indipendenza da me e di vita propria, suscettibile di interscambio con l’esterno. “Dunque io sono questo. Lo sono rispetto a questa e/o quella condizione interiore e/o esterna, lo offro a te e di conseguenza sei autorizzato a farne un uso. Dare un tuo feedback e/o a dirmi chi sei tu”.
Descrivi il processo creativo di una tua opera. La pittura è solo il pretesto, lo strumento per spingermi in zone d’ombra, “no man’s land”, catturare ciò che chiede di essere portato alla luce.
Mantenere una costante lucidità nel dialogo con gli elementi che abitano le regioni dell’inconscio è il paradosso neccessario affinchè la comprensione e il reperimento di ciò che ha bisogno di essere rappresentato sia il più onesto possibile.
Subiamo costantemente la fascinazione di dati, bulimiche assunzioni di informazioni, stimoli sensoriali e intellettivi fino ad arrivare, spesso, a non essere in grado di distinguere ciò che ci appartiene intimamente da ciò che poco o niente ci riguarda. Per questo larga parte del mio lavoro è attenta al mantenimento del contatto con me stesso, alla lettura di ciò che si anima all’interno, scremando e pazientando nel riconoscimento di finti sé, definendo ciò che sono rispetto a una data situazione.
Solo a quel punto posso avviare il lavoro di transfigurazione di emozioni, stati d’animo, idee in immagini o composizioni di immagini in un gioco di raccolta di elementi costantemente rielaborati, spesso decontestualizzati e collocati in ambienti diversi che meglio danno all’osservatore l’idea sottesa all’opera. L’operazione pittorica, quella esecutiva, compare molto dopo. Può attendere pochi minuti se baciata da un insight fortunato o settimane e mesi se la certezza di ciò che intendo elaborare tarda ad arrivare.
Ultimo film visto e ultimo libro letto. L’ultimo terrestre, un film di Gian Alfonso Pacinotti del 2011, mentre l’ultimo libro è stato Homo Deus. Breve storia del futuro di Yuval Noah Harari.
Da cosa scaturisce l’esigenza di lavorare su grandi dimensioni? Lessi, tempo fa, su un articolo di qualche rivista d’arte o un manuale di tecniche pittoriche, o sulle Arti-terapie, non ricordo, che ognuno di noi ha un proprio formato entro il quale si esprime con maggiore agiatezza e libertà. Se intendiamo il supporto, tela bianca, carta, pannello, parete ecc, come uno spazio scenico, lo spazio entro il quale noi, attraverso segni e campiture, ci rappresentiamo e ci muoviamo, la scelta, piu o meno ponderata, delle dimensioni del proprio formato, trova la sua ragione di essere.
Per gli istanti in cui siamo davanti al supporto e ci lavoriamo, quello diventa il nostro spazio abitativo. Io ho capito che i miei “campi d’azione” devono essere grandi, a volte molto grandi, o piccoli, molto piccoli. Ho bisogno coi piccoli formati di momenti di raccoglimento, di chiusura e intimità. La grande tela invece, mi permette di esprimere a pieno il gesto, espandere il segno pittorico, usare la fisicità e colloccarmi in uno spazio in cui sento di non avere costrizioni né ai lati né alle spalle, così da potermi distanziare e riavvicinare al supporto con calma o frenesia. Il medio formato lo uso raramente, su richiesta, o per limitazioni prevalentemente di spazio.
La tua opinione sul panorama artistico isolano. Data la conoscenza poco approfondita rispetto alla situazione dell’arte nell’isola, non vorrei fare gaffe, o essere presuntuoso e giudicante senza averne gli strumenti. Due parole su quello che credo di percepire: la nostra isola conserva dei tratti caratteriali che si riversano in tutte le attività e l’arte non fa eccezione. Solo le nuove generazioni iniziano ad assimilare il concetto che fare arte, occuparsi d’arte, scrivere, produrre, fare ricerca in campo artistico sia un mestiere.
Per l’opinione della più parte della vecchia leva, tolte le necessarie eccezioni, “Arte” equivale, nel migliore dei casi, a un nobile, sano, forse un po’ inutile hobby, ma divertente e appassionante, per citare i due appellativi usati dal Premier Conte nel discorso sul decreto per la fase 2 dell’emergenza Covid19. Questa è una delle ragioni per le quali tutt’oggi il 99% degli artisti, e parlo di professionisti, non vive di arte. Deve neccessariamente avere uno tra i lavori che la poco generosa economia isolana è in grado di offrire.
Trascuriamone l’aspetto umano che mi interessa relativamente, quello che inevitabilmente succede è che la stessa qualità del prodotto artistico viene penalizzata perchè l’artista è obbligato a interrompere regolarmente e riversare attenzioni ed energie su altro. E poi riprendere il pennello o lo spartito per poi riappoggiarlo.
Come stai vivendo questo periodo di lockdown? Il mio lockdown ha attraversato varie fasi. Un po’ come le fasi di elaborazione di un lutto se visto nell’ottica di morte della libertà. Io poi di fronte ai momenti di criticità mantengo sempre lo stesso atteggiamento, cinico, ironico, quasi come se non riguardasse me. Una difesa suppongo. Un modo per alleggerire il peso dell’impatto di un dato avvenimento.
Nello specifico, in questo caso, ho affrontato due lockdown. Il primo è stato vedere saltare il periodo di permanenza di qualche mese a N.Y. city con volo fissato per il 12 marzo. Era un progetto, forse lo è ancora, che maturava da qualche anno, e lo intendevo come temporanea pausa dalla oggettiva attività di lavoro per dedicarmi a un tempo di osservazione in un panorama in cui la ricerca e la produzione e il mercato dell’Arte sono tra i più fiorenti.
L’impossibilità di partire mi ha un po svuotato e l’opera di svuotamento è stata proseguita dal blocco presso che totale delle attività dal lockdown. Ho deciso di accettare il momento di inattività e accogliere come possibilità anche quella di vivere un annichilimento creativo dalla durata imprecisata. …“Non si è mai più occupati di quando non si fa nulla. Non si è mai meno soli di quando si è soli”…Catone.
Devo dire che leggere la cosa giusta al momento giusto può essere d’aiuto. Così ho riconvertito il mio studio in una palestra minimale: un sacco, dei pesi, una corda e mi sono tenuto in forma. Se l’intelligenza creativa decide di andare in ferie credo che bisogna democraticamente accettarne la scelta e concederle il meritato riposo lasciando aperte le porte per accoglierne il rientro.
Con un po’ di perseveranza e metodo invece il corpo lo si può continuare a nutrire con attività quotidiana e buona alimentazione. E così ho fatto senza pensare mai all’urgenza di dipingere o di produrre idee per opere successive. Se dentro qualcosa si muove, continua sicuramente a farlo anche se non ne abbiamo il pieno controllo e coscienza.
Lock down di lettura, quindi, sport individuale e un considerevole aumento delle ore di sonno. Ho aspettato che maturasse, senza pressioni, il bisogno di riprendere il lavoro e una settimana fa ha fatto il suo ingresso. Calmo, pacato, senza urgenza né aspettative.
A cosa lavori in questo momento? Ho da circa una settimana ripreso il lavoro in studio dopo un arresto di quattro mesi. Inizialmente un arresto intenzionale utile, così ritenni, a fare il punto e inquadrare con chiarezza il momento d’arrivo del mio lavoro e il punto di ripresa dello stesso.
D’altra parte il prolungamento di tale arresto è stato causato dall’inaspettato arrivo del problema pandemico e l’handicap che ne è conseguito.
A differenza di molti e presumo come tanti altri artisti, ho sentito l’imperativo di fermarmi un attimo, il tempo sufficiente, né troppo né troppo poco, ma neccessario a capire, sentire, introiettare quanto succede oggi all’uomo, su scala globale e quindi a me come parte di questo ingranaggio. L’attesa è valsa a farmi notare un fenomeno già in atto da anni se non decenni ma che oggi più che mai si esprime su vastissima scala e sopratutto più esplicito e manifesto. Parlo della quasi totale perdita del potere progettuale, quindi gestionale della propria esistenza in conseguenza a un sempre più invasiva dipendenza dalla classe governante.
Ho nelle ultime settimane assistito a me stesso come a milioni di persone elemosinare un sussidio, un aiuto, un prestito, in preda a una mortificante condizione di angoscia e paura per l’incertezza su cosa sta accadendo e su cosa accadrà in un vicinissimo futuro. Compilazione tanto ossessiva quanto affannosa di moduli INPS, interminabili attese per ricevere un codice PIN, una password, un nickname, al punto che l’unica cosa che mi riesce leggere con facilità negli occhi dei miei simili, forse anche nei miei è: “che numero sono”.
Questo è l’oggetto di riflessione sul quale mi sto focalizzando, in una serie pittorica che per quanto iniziata da alcuni giorni è ancora in fase di gestazione e susciettibile di rivisitazioni, modifiche e ripensamenti. Per ora sono dei dipinti corali in cui folle di gente in attesa di non si sa bene cosa, come nella realtà, aspetta ciascuno il proprio turno con il proprio numero.
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