Andrea Nurcis mi intervista in merito alla Collezione Ugo



Oltre che raccogliere le testimonianze storiche dei protagonisti della collezione Ugo e di tutti coloro che in qualche modo l’hanno frequentata all’epoca della sua direzione, vogliamo dare voce anche a chi oggi si occupa della sua “rinascita”: giovani curatori e curatrici, storiche e storici dell’arte che rappresentano il futuro nella gestione dei beni artistici e culturali di Cagliari e della Sardegna. Cominciamo col contributo di chi ha collaborato all’iniziativa “Face to Face” -- promossa dalla stessa Galleria Comunale e terminata alcune settimane fa -- in cui in una serie di giornate aperte al pubblico venivano messe a raffronto alcune opere della Collezione Ugo con altre della Collezione Ingrao. Roberta Vanali oggi risponde a delle nostre brevi domande e ci offre il testo di sintesi del suo intervento che sarà presente, assieme a quelli di tutti gli altri curatori, nelle sale della Galleria Comuale a disposizione del pubblico.
Cara Roberta, dopo esserti già occupata della collezione Ugo scrivendo articoli e recensioni, nelle settimane scorse sei intervenuta all’interno della manifestazione Face to Face che si è appena conclusa, in cui hai proposto un confronto tra un’opera di Donghi della Collezione Ingrao e l’opera di Pietro Gilardi della collezione Ugo. Perché hai scelto questi due artisti?
Innanzitutto perché sono due artisti che amo particolarmente ma quello che più mi interessava era mettere a confronto due personalità e, di conseguenza, due opere molto diverse tra loro e trovare un unico denominatore. Da una parte l’enigmatico e aristocratico Antonio Donghi, dall’altra l’artista militante, con un debole per le minoranze Piero Gilardi. Entrambi con una visione della natura che non rispecchia la realtà, in bilico tra reale e artificiale, dal momento che il Vaso di fiori di Donghi rientra in quello che è definito Realismo Magico e il Greto di torrente di Gilardi è, invece, uno stralcio di natura rimpicciolita ma fittizia, nonché realizzata con materiali paradossalmente inquinanti.
L’iniziativa face to face, a nostro parere ci fa capire l’errore che è stato commesso smantellando la collezione Ugo per fare posto a quella Ingrao, Sarebbe stata un’occasione di arricchimento culturale integrando nella raccolta d’arte contemporanea una significativa collezione d’arte del 900. Come interpreti invece la volontà di eliminare completamente la Collezione Ugo e farla sparire dalla memoria per oltre 20 anni conservandola dentro dei magazzini malsani?
Questa volontà, come giustamente affermi è la conseguenza dell’acquisizione della Collezione Ingrao che, come clausola, prevede l’esposizione permanente di tutti i pezzi (circa 250) e che occupa gran parte della Galleria, facendo risultare alcune sale al limite del claustrofobico. E’ stato fisicamente impossibile far convivere le due realtà insieme alla già preesistente Collezione Sarda. Un altro discorso è quello dell’inaccettabile totale abbandono che ha causato il deterioramento di alcune delle opere. Tra queste proprio Greto di torrente di Gilardi, come ho sottolineato più volte nel mio intervento.
Quando sei venuta a conoscenza dell’esistenza della collezione Ugo?
Negli anni Ottanta, ai tempi del Liceo Artistico, andavo spesso a visitare la Galleria Comunale. Ricordo ancora una splendida mostra di videoarte, alla quale partecipava anche Tonino Casula, che mi rimase particolarmente impressa ma non ricordo il titolo.
La collezione Ugo, come più volte abbiamo voluto sottolineare è il risultato di un dibattito culturale importante in una Sardegna che alla fine degli anni 60 cercava di modernizzarsi. Secondo te quali iniziative si dovrebbero prendere affinché questa collezione d’arte contemporanea venga finalmente percepita da tutti come appartenente all’identità culturale della Sardegna?
Con la direzione di Paola Mura si sta già lavorando molto bene in questo senso, infatti oltre ai Face To Face con L’artista al centro c’è stato modo di dialogare con alcuni degli artisti presenti nella Collezione Ugo, tra cui Tonino Casula e Giovanni Campus, alla presenza di Ugo Ugo che spesso e volentieri partecipa agli incontri. Inoltre, proprio lo scorso fine settimana è stato inaugurato il nuovo allestimento della Galleria Comunale dove è stata ricostruita filologicamente una delle sale dell’epoca e intitolata al suo creatore. L’ex Sala Depero è ora la Sala Ugo.
Quali reazioni ci sono state al tuo intervento per face to face da parte del pubblico?
Ho notato un ottimo riscontro, grande curiosità e interesse per ognuno degli interventi.
Credi che oggi da parte delle nuove generazioni di sardi ci sia più interesse nei confronti dell'arte contemporanea?
Da quando i giovani artisti sardi sono riusciti ad emergere (sino agli anni Novanta i nomi erano sempre gli stessi e i giovani raramente erano contemplati tra questi) è sempre maggiore il numero di interessati che frequenta le mostre e talvolta acquista. Soprattutto quando si tratta di esporre illustrazione, grafica e fumetto, ambiti in cui operano anche street artist e tatuatori, entrambi con seguiti eccezionali.

DI NATURA INNATURALE
Muovendo dal concetto di natura sono state prese in esame due opere molto differenti tra loro, non solo per il periodo storico in cui vengono realizzate ma soprattutto per il linguaggio espressivo che le caratterizza e la scelta dei materiali utilizzati, accomunati, invece, da una rappresentazione della natura in bilico tra realtà e finzione, tra naturale e artificiale: l’installazione Greto di Torrente di Piero Gilardi, appartenente alla Collezione Ugo, e il dipinto Vaso di Fiori di Antonio Donghi, parte della Collezione Ingrao. 

Greto di Torrente è un’opera realizzata appositamente per la Galleria Comunale nel 1969, periodo in cui Piero Gilardi interrompe la sua produzione ma accetta di buon grado di essere presente nella Collezione Ugo. E‘ uno dei celebri tappeti-natura - icone della Pop Art e di tutte quelle espressioni artistiche che indagano il rapporto tra società e natura - realizzato in poliuretano espanso attraverso cui l’artista propone una rielaborazione molto personale del concetto di natura che si confronta con la storia, lo spazio e il tempo. “Ho preso l’artificialità razionale di un materiale sintetico come la gommapiuma e l’ho unito a questa immagine umanistica della natura. Questa immagine non è solo mia, ma è una memoria storica di grande spessore.” 
L’artista riproduce in senso realistico un ambiente naturale come il greto di un torrente e lo fa paradossalmente con un materiale estratto dal petrolio e quindi altamente inquinante. Ma non a caso, dal momento che, oltre allo scopo ludico della rappresentazione, a tratti fiabesco, l’opera incarna soprattutto una denuncia sullo stile di vita artificiale, sui cambiamenti climatici e sulla progressiva perdita della biodiversità. E’ un oggetto estetico ma al contempo un vero e proprio tappeto da utilizzare. Uno stralcio di natura rimpicciolita dall’aspetto verosimile. Una rappresentazioni iperrealistica ma fittizia di uno scenario naturale che consente di riflettere sul rapporto tra natura e artificio, poiché appare più reale della realtà ma è una creazione artificiale e come tale capace di trasmettere sensazioni stranianti. Pertanto natura e cultura, artificio e narrazione si intrecciano in queste creazioni modulari che anticipano le installazioni multimediali interattive successive alla ripresa dell’attività artistica.
Vaso di fiori di Antonio Donghi è un olio su tela non datato ma ipoteticamente ascrivibile ai primi anni Quaranta per l’atmosfera particolarmente tersa e nitida che caratterizza altri vasi del periodo, tema ricorrente nella produzione dell’artista, rappresentante del Novecento Italiano e maggior esponente del Realismo Magico, versione italiana della Nuova Oggettività tedesca.
L’opera è di altissimo livello. L’inquadratura è centrale, il vaso, che poggia su un piattino che sua volta giace su una tovaglia che forma un leggero drappo, contiene una varietà di fiori di campo: margherite, papaveri, lavanda e citrinus. I contorni sono nitidi e netti e i colori vibranti. La maniacale accuratezza dei particolari è il motivo per cui la produzione dell’artista non risulta vasta. Alla base del piattino un racemo tenta di distogliere dalla rigida simmetria. 
Antonio Donghi rappresenta la realtà ma una realtà straniante, magica, data dall’armonia e dalla rigorosa stilizzazione e semplificazione delle forme geometriche di piefrancescana memoria. Una iperrealtà che, accostata “alla luce che non è di questo mondo” - per parafrasare Sinisgalli - e all’atmosfera sospesa e silenziosa, rende fantastica l’intera composizione. Realtà inverosimile che sfugge alle regole prospettiche, come si può notare dalle corolle che si stagliano su un unico piano. “Surrealista non fu mai Donghi, e neppure realista: la sua realtà è inverosimile come una fiaba e più della fantascienza. Le carni delle sue figure non sono nè carne nè gesso, sono solo la pittura di Donghi e a nulla assomigliano se non a se stesse”, per citare Cesare Brandi. Tutto ciò concorre a conferire all’opera una connotazione artificiale, né più né meno del Greto di torrente di Gilardi. Pertanto, entrambe le opere, rientrano in quella che può essere definita una natura innaturale.

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