Women Painters From Five Continents


Sei differenti punti di vista dai cinque continenti, con un unico comun denominatore, quello di una visione al femminile. Sei artiste accomunate dall’esigenza di un’espressività pittorica tracciano uno spaccato della società di appartenenza, stimolando una riflessione sulla diversità delle radici culturali e sulla loro evoluzione. Nel tentativo di evidenziare le conquiste sociali da parte della donna - a livello globale - soprattutto nel percorso dell’affermazione creativa. In un allestimento all'Osart Gallery destinato a coinvolgere direttamente lo spettatore, grazie alle grandi tele che, calando dal soffitto, s’impongono allo sguardo.



Attività esclusivamente maschile sino alla fine degli anni ’70, la pittura nella società aborigena mito, tradizione arcaica e memoria, elementi alla base del linguaggio di Ruby Williamson, che riduce sinteticamente la rappresentazione del villaggio immerso nella natura più lussureggiante per giungere a una sorta di astrazione formale, fra cromatismi stridenti e un’istintività ancestrale. Monumentale e scenografica è invece l’opera della promessa americana Rosson Crow, visionaria pittrice texana. Nel turbinio di colori acidi, fluorescenti e sgocciolanti s’intravedono interni metafisici di locali pubblici, bar e saloni barocchi, la cui atmosfera, nonostante la natura vibrante del colore, appare congelata, sospesa in uno spazio senza tempo. Tra assenza e rievocazione, in una dimensione di spazi scenografici distorti e decadenti dove, al di là del gesto, sono la musica jazz e country a farla da protagonisti. Così come nell’onirico Texas Painting, omaggio al musicista George Straits.
Meno incisiva e d’impatto l’iperrealista pittura dell’installazione di Iva Kontic: tre finestre aperte sulla città distrutta di Belgrado. E se le vedute dall’interno buio di una stanza non emergono per originalità della rappresentazione, la visione nostalgica dell’artista non può, viceversa, passare inosservata.



Sono multidimensionali le sorprendenti opere della sudcoreana Chung Suejin, affollate come in una sorta di horror vacui, a raccontare l’evoluzione di una società che cambia nel tentativo di riappropriarsi della perduta identità. Un immaginario che, in una rappresentazione estremamente ludica, solo a uno sguardo più attento si affranca dall’appena suggerita inclinazione al consumismo.
Chiudono la mostra la sinuosa e raffinata donna-manichino che si scarnifica, dell’irachena Hayv Kahraman - con riferimenti all’arte sumi e alla miniatura persiana, per denunciare abusi e violenze -, e le opere concettuali dell’anglo-ghanese Lynette Yiadom-Boakye che, fra stratificazioni di colore e figure aggressive che si muovono nel buio della notte, immagina il potere nelle mani di una carismatica donna. Novella Lilith capace di trascinare il popolo.

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