Le ombre oscure di Roger Ballen

L’universo visionario e apparentemente non sense di Roger Ballen. 86 immagini in bianco e nero tracciano il percorso del fotografo newyorchese. Sapienti messe in scena, spiazzanti e grottesche...


Non si rimane indifferenti davanti alle immagini di Roger Ballen (New York, 1950; vive a Johannesburg). Una tale forza espressiva e visionaria non può che lasciare sgomenti. Lo spazio ambiguo fuori da ogni tempo e luogo, l’atmosfera immobile fatta di gesti appena accennati di personaggi borderline dagli sguardi smarriti nel vuoto. Esseri isolati, irrimediabilmente perduti nei loro drammi occupano ambienti miseri, al limite del degrado, interagendo con animali e oggetti nonostante l’apparente non sense.








Ballen ritrae persone ai margini che vivono nei villaggi rurali del Sudafrica. Disadattati, freak ingabbiati nelle “stanze delle ombre” abitate da cani, gatti, topi, conigli e serpenti dove il protagonista, tutt’altro che indiscreto, è il muro, sfondo mai lasciato al caso, così come le intere scene, teatrini grotteschi dell’umanità. Nulla del suo linguaggio è documentaristico, nonostante avvii la sua ricerca dalle inquietanti conseguenze dell’apartheid. Da essa si dissocia per non cadere nella semplice denuncia sociale. Non importa dove siano state costruite le scenografie e immortalate le immagini, importate è invece la riflessione sulla condizione esistenziale. L’indagine psicologica delle zone d’ombra dell’anima che l’obiettivo di Ballen cerca di mettere a fuoco. È coinvolgente la mostra di Su Palatu. Ottantasei immagini in un rigoroso quanto drammatico bianco e nero - che accentua il pathos della rappresentazione - tracciano il percorso artistico di uno dei più grandi fotografi contemporanei.





Dalla fine degli anni ’90, con alcuni scatti di Outland, passando per la serie Shadow chamber fino all’attuale ricerca di New project con quattro inediti, sorta di work in progress rivolto a un gusto più pittorico della rappresentazione, dove convergono abilmente arti visive, letteratura e teatro. Quel teatro dell’assurdo di Beckett e Pinter, senza escludere il teatro della crudeltà di Artaud, che diviene tragicomico. Spaccati di cinismo puro, spiazzanti per l’apparente mancanza di un filo logico. Sapienti messe in scena di fatiscenti e squallide ambientazioni che la luce rivela nei più piccoli particolari, dai graffiti sui muri alle macchie dei pavimenti divelti, dalle piante ai grovigli di fil di ferro o filo spinato. Tracce che segnano il passaggio di qualcuno, stratificazioni dell’anima che divengono simboli. E dove la fotografia si trasforma in abile strumento d’indagine. Per “atti unici” in bianco e nero.

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