Bye Bye Baby


Non si ripete due volte questo giorno
Scheggia di tempo grande gemma.
Mai più tornerà questo giorno.
Ogni istante vale una gemma inestimabile.
(da 100 storie Zen)


Esperienza universale tra le più comuni del ciclo vitale che inizia al momento della nascita e termina con la morte, il distacco è una delle paure più radicate nella coscienza umana capace di scandire progressivamente le tappe fondamentali dell’esistenza, plasmando la personalità dell’individuo. Dal momento della nascita, in cui subiamo il primo trauma esistenziale, un susseguirsi di eventi, legati ad uno stato di separazione e perdita, incidono più o meno profondamente nella psiche che evolve alla ricerca della parte mancante, per dirla come Platone, a ricomporre ciò che un tempo era tutt’uno. Dalla recisione del cordone ombelicale al passaggio dall’infanzia all’età adulta, dalla fine di un rapporto interpersonale all’abbandono della terra d’origine fino al distacco come esperienza del non ritorno, ovvero la morte. La separazione da una appartenenza che può essere sociale, familiare o psicologica è sempre un’esperienza violenta che sfocia inesorabilmente in un profondo stato di abbandono in cui trovano terreno fertile solitudine e isolamento, sia che questa sia subita o causata. La perdita è un lutto e come tale deve essere elaborata ma può essere vissuta anche in maniera catastrofica divenendo non solo perdita dell’altro ma anche di sé stessi. Un distacco emozionale che diviene disinteresse per la vita e indifferenza nei confronti del mondo, o in casi estremi si trasforma in dissociazione o alterazione della percezione della realtà, può sfociare nella più pura follia. Ma se questo è capace di provocare lacerazioni, vuoti talvolta incolmabili fino a calcificarsi come condizione esistenziale irreversibile, si configura non solo come periodo transitorio, esperienza di evoluzione e fase da cui ripartire ma spesso anche come condizione privilegiata, quando il distacco diviene spirituale per giungere all’essenza e dove il concetto si traduce nella necessità di purificare l’anima, come sostiene Heidegger: e questo distacco da tutte le cose umane e l’interruzione di tutti i rapporti è, per quanto concerne il lavoro creativo, l’esperienza più grandiosa che io conosca tra tutte quelle umanamente possibili.
A riflettere sulle variazioni del concetto di distacco, - privilegiando gli ambiti di pittura e fotografia -, sono stati selezionati 21 artisti, ognuno con background, provenienza territoriale e appartenenza generazionale differenti, per indagare come questo venga percepito dall’individuo, quali conseguenze o ripercussioni abbia su se stesso e come si traduca nell’immaginario collettivo. Accomunati dal gusto pop della ricerca, con una molteciplità di innesti che spazia dall’immaginario urbano a quello mediatico, dall’illustrazione al fumetto, dalla pubblicità al cinema fino alla musica e che, nelle sue varianti stilistiche, prevede un linguaggio semplice e diretto - efficace per questo a tradurre l’epoca contemporanea -, gli artisti hanno attribuito al concetto di distacco un’accezione perlopiù negativa piuttosto che configurarla come tappa evolutiva, nell’interpretarlo come stato d’abbandono (Tamara Ferioli, Franco Podda, Giuliano Sale, Giuseppe Rado, Valentina M, Roxy in the box), come fase di passaggio tra l’età adolescenziale e quella adulta (Silvia Argiolas, Daniele Giunta, Michela Muserra, Alessia Cocca), come lontananza fisica (Gavino Ganau) e sospensione dalla realtà (Francesca Randi, Siva), come ultimo ed estremo distacco (Alessio Onnis, Elisabetta Falqui, Pastorello, Tommy Retrò, Elena Rapa, Silvia Idili) ed infine come destrutturazione della personalità (Massimo Festi, Danilo Pasquali).
Tra estasi ed abbandono, Giuseppe Rado s’ispira al gioco nipponico per consolle Nursei Ikusei, puro pretesto per dare vita ad un’icona dell’erotismo testimone dell’amore ad ogni costo, fino alla morte. Una geisha in stile bondage memore dell’universo fetish di Araky e della visione glamour di Erwin Olaf. Al limite del dissacrante, non lontano dalle stesse atmosfere erotiche, Danilo Pasquali mette sottovuoto l’esistenza umana con il Vacuum, strumento di costrizione dell’universo feticista, dove il contorto rapporto tra il sé e l’altro viene incarnato dalle figure soffocate tra due fogli di lattice alle quali attribuisce la parvenza di sculture monocrome, - memori della ceramica invetriata di Luca della Robbia -, strette tra ex voto e simboli della cristianità. Ancora il corpo come luogo di trasgressione nelle manipolazioni digitali di Massimo Festi che al confine tra mito e quotidianità elabora figure patinate, icone dell’era contemporanea ambiguamente celate da maschere, filtri identitari imprescindibili. Maschere come feticci, come seconda pelle che occulta l’identità reale per strutturarne una artefatta ed indagare l’individuo attraverso gli stereotipi della cultura pop, tra manualità e tecnologia. Con fare voyeristico e l’ambiguità di chi contempla lontano da occhi indiscreti, Giuliano Sale immagina un momento di abbandono, un istante di estasi di una suora adolescente che patisce, suo malgrado, costrizione e sottomissione legate ai dogmi religiosi. Tra sacro e profano l’artista si addentra nell’intimità della giovane armata di una croce nel tentativo di trasfigurarla in grottesco orpello, in un contesto di ascendenza pop surrealista.
Scava nella profondità dell’essere, nei più turpi aspetti della natura umana, Tamara Ferioli attraverso l’uso di materiali, in particolare dei capelli che costituiscono il suo leit motiv, un’impronta autobiografica al quale conferisce valenza simbolica. Giocando con l’ambiguità delle parole, scandisce racconti frammentari, in "Notte di riso" dove alla drammaticità della convivenza col proprio essere, chiuso nell’intimità della stanza da letto, accosta la violenta rottura di una relazione affettiva. La stessa subita dalla donna di Adieu mon amour, provata dalla sofferenza più cruda nell’opera di Francesco Podda, che elabora una visione artificiale della realtà, con abile intervento digitale, per mettere in scena il dolore oltre la sofferenza e la rassegnazione verso l’ineluttabile. Sospese tra sogno e realtà, le inquietanti bambine di Alessia Cocca si stagliano su fondali rigorosamente bianchi, luminescenti, conferendo una parvenza artefatta alle figure che appaiono improvvise da un’atmosfera lattiginosa, senza tempo. Bloccate nel momento del loro primo lutto, ovvero la perdita del primo dentino, le bambine, dai lineamenti abnormi, ostentano il loro trofeo con l’orgoglio di chi ha conquistato il mondo.
Il distacco che genera un rito propiziatorio dopo uno stato di abbandono è il territorio d’indagine di Roxy in the box. 100 colpi di sega più che una citazione all’opera di Melissa P. è un tentativo, ben riuscito di ridicolizzare il sistema mediatico, in antitesi all’omologazione di una società al limite del consumismo più sfrenato. Una trasposizione ferocemente ironica, dai cromatismi sgargianti, dove la linea essenziale circoscrive campiture piatte ritagliando le figure dal fondo. Il distacco dalla propria immagine come amputazione del sè piuttosto che rituale liberatorio, è quello rappresentato da Valentina M, che conferisce ai capelli una valenza simbolica introspettiva, estremamente intima, a scandagliare il presente attraverso un avvenimento del passato oramai perduto, ma deliberatamente.
Gavino Ganau immagina il distacco come promessa non mantenuta di un ritorno, seguito da un’illusione. Un’attesa vana di ritrovare ciò che si è perduto attraverso la giustapposizione di un soggetto espressivo e un luogo di arrivi e partenze, il tutto connottato da un rigoroso bianco e nero e da un taglio "cinemascope" che conferiscono all’opera la parvenza di un frame cinematografico. È ancora il viaggio a fare da protagonista, ma stavolta in senso allegorico, nell’opera di Francesca Randi che costruisce, come in un set teatrale, l’esperienza iniziatica del suo alter ego infantile mentre osserva il mondo attraverso uno specchio, come nella fiaba di Alice. In bilico tra la monumentalità di Basilico e la ricerca introspettiva di Matteo Basilè, alla locuzione latina Vanitas vanitatum et omnia vanitas l’artista coniuga i fiori recisi, simbolo della caducità della vita, e la volpe - che inquietante le fascia il collo - come monito ad accettare una visione artefatta della realtà.
Il distacco come passaggio dall’età infantile a quella adulta è stato preso in esame da Silvia Argiolas che concepisce l’abbandono sotto forma onirica attribuendo un’esistenza drammatica al mondo infantile. Tra realtà e finzione, le visioni sono un modo per esorcizzare l’incapacità di accettare la nuova condizione, in uno scenario in bilico tra suggestioni gotiche e l’immaginario manga. Così come per Daniele Giunta, interprete di un’estetica raffinata di matrice simbolista fatta di atmosfere rarefatte pregne di misticismo, che concretizza figure adolescenziali, visioni che appaiono dal nulla deflagrando sulla seta cangiante. Da dissolvenze cromatiche prendono forma esseri impalpabili - che trovano corrispondenza nella spiritualità della letteratura giapponese - muovendosi lenti tra le ambientazioni fiabesche delle foreste nordiche. Lo stesso concetto viene esteso in maniera grottesca ed in parte autobiografica da Michela Musserra, che mette l’infanzia in uno stato di limbo, tra l’ingenuità di una bambina e la malizia di una donna con la consapevolezza di una fine vicina. In Doggy Stile conserva la ciotola-feticcio del pupazzo morto che continua a nutrire col proprio dolore, mentre in Elixir si trasforma in macabra crocerossina del suo stesso cuore, dopo aver superato il dramma di una melodia, Disco Inferno, colonna sonora di un amore perduto, ora celestiale grazie alle miracolose "cuffie angeliche".
La morte come distacco estremo è simboleggiato dall’ambivalenza del calice d’oro di Alessio Onnis, Sacro Graal contemporaneo che domina su un fondale rigorosamente geometrico in antitesi alla sontuosità dell’antico oggetto. Coppa che ha raccolto il sangue di Cristo ma anche simbolo del grembo materno e di vita eterna, imponente icona finemente cesellata fra tradizione e figurazione di ascendenza pop. È il distacco come transitorietà tra il mondo dei vivi e quello dei morti, quel salto nel vuoto che si prepara a compiere anche una delle eteree figure di Pastorello - icona persa nella fissità del proprio sguardo - mentre si allontana silenziosa ad iniziare l’ultimo viaggio, tra un classicismo di matrice quattrocentesca e la "concretezza" del tubismo legeriano. Protagonista di un fare artistico seriale che attinge da De Pascale nel tentativo di concepire la griffe come status symbol, Elisabetta Falqui materializza in plexiglass la data di morte del padre per congelare il momento dell’ultimo distacco, quello eterno. Gronda d’impietoso cinismo, l’immaginario fiabesco di Elena Rapa che attinge a piene mani dall’illustrazione occidentale senza esclusione per quelle influenze provenienti dai fumetti del Sol Levante. Ai particolari anatomici del suo bestiario umanizzato, realizzato con notevole perizia tecnica, l’artista conferisce uno stato d’ipertrofismo. Tratta dalla serie "Camere Nere", Dimmi… indaga il tema della morte da parte di chi rimane, sottolineato dagli sguardi pietosi dei personaggi che fissano il vuoto in attesa di qualcuno che non arriverà. Atmosfere gotiche e ibridi della natura anche nell’interpretazione di Silvia Idili che attraverso I Pianti - miniature formalmente non lontane dell’illustrazione inglese del primo Novecento -, analizza la condizione della morte nel mondo animale. Al confine tra un bestiario medievale e l’iconografia rinascimentale, l’artista mette l’accento sulla sacralità del sacrificio, sostituendo alla testa del santo quella di un agnello.
È un universo onirico, quello di Tommy Retrò, al limite d’ogni ambientazione surreale, che restituisce immagini degne dei migliori noir francesi e delle atmosfere create da Helmut Newton. Dalla rigorosità del bianco e nero e della trasposizione del dramma teatrale di Beckett origina Il dondolo, metafora dello svolgimento di una vita fino all’ultimo respiro e dove all’ambientazione alienante sostituisce una visione più sognante della rappresentazione. Attinge, invece da atmosfere psichedeliche anni Settanta, Siva, miscelando elementi della natura, talvolta opposti, a simboli che perdono del loro significato per tracciare scenari baroccheggianti dalle tinte piatte e stridenti che ben si articolano all’effetto metallico conferito dall’acrilico su tessuto. Senza mai sfociare nello sterile decorativismo, i giardini dell’Eden coprono tutta la superficie in una sorta di horror vacui, non tanto a determinare un ambiente post-mortem quanto a creare un multiforme universo d’evasione dalla realtà.

Commenti

  1. Anonimo9:13 AM

    Ciao, vorrei segnalare questa mostra sul sito dell'Associazione fotografica per cui lavoro. Visto che sei la curatrice, posso prendere il post come comunicato stampa o saresti così gentile da inviarmelo? Ti mando il mio indirizzo, dsedd@tiscali.it (magari ti prego di cancellare il mio intervento dopo che lo avrai letto...si riceve fin troppa spam!).
    Questo è anche l'indirizzo dell'Associazione con seded a Pisa, www.imagopisa.it.
    Complimenti per il tuo lavoro su exibart, che leggo regolarmente e in bocca al lupo per la mostra.
    Donatella Sedda

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