Confini al Man
La linea di confine è duplice, ambigua; talora è un ponte per incontrare l’altro, talora una barriera per respingerlo. (Claudio Magris). In un’epoca in cui è sempre più difficile tracciare confini mentali e culturali e dove la contaminazione tra i mezzi espressivi è l’elemento cardine che caratterizza la produzione artistica contemporanea, ben si colloca la collettiva Confini offrendo molteplici vie interpretative. Prendendo avvio dal concetto di confine come separazione territoriale e metaforica fra spazi attigui, come zone di transizione, come margini che delimitano identità etniche ma soprattutto come frontiere da infrangere ed oltrepassare per capire da quale parte si guarda un confine.
Affronta l’angosciante tematica della detenzione in 3,24 mq, Francesco Arena riproducendo l’angusta cella di Moro in Via Montalcini così come quella di Alfredo Jaar che attraverso gli specchi moltiplica all’infinito ciò che si trova al suo interno e dove il confine assume la valenza di allontanamento e separazione repentina. Stesso punto di partenza per Andrea Nacciarriti che, con le sue persiane "divisorie", sovverte il concetto di funzionalità.
La frammentazione del corpo, la limitazione che ne consegue ed il rapporto con lo spazio circostante sono alla base, invece, del video Music Box e della performance/installazione Cupboard di Yael Davis mentre Magdalena Jetelova proietta citazioni di Virilio sulla parete atlantica fatta erigere da Hitler e le immortala in un rigoroso e tenebroso bianco e nero ad esorcizzare angosce e drammi delle barriere belliche. Apparentemente ironico l’intervento - fra installazione e scultura - di Mona Hatoum, Grated divide inquieta ed intimorisce per la pericolosità delle lame taglienti della surreale grattugia/paravento in scala monumentale. Non è da meno Projection, globo terrestre incandescente che ci accoglie all’ultimo piano del museo. Grande spazio al tema dell’immigrazione ed al dramma dell’integrazione con Mateo Matè, che in Desubicando e Viajo para conocer tu geografia concepisce il territorio come profonda intimità e dove le frontiere geografiche corrispondono a quelle fisiche, mentre Adrian Paci ne fa un reportage documentaristico. Il collettivo IngridMawangiRobertHutter con Shades of skin stampa memorie sulla "propria pelle", operazione analoga per Daniela Kostova che partendo dalla sua personale esperienza rimarca limiti e condizione di estraneità dei migranti. Scultures of Blind di Maya Bajenic è, invece, una metafora del viaggio intrapreso da milioni di persone. Non meno drammatico è l’intervento di Liliana Moro che mette in scena una selvaggia lotta all’ultimo sangue tra cani in bronzo. Chiude l’esposizione il Tatami di Riccardo Previdi che non limita bensì amplifica gli interventi di altri artisti ed in questo caso ospita il video di Deborah Ligorio, viaggio subacqueo alla scoperta dei cavi telefonici che attraversano l’oceano.
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