In_Sedia_Menti


Una sedia deve servire a far sorgere lo spettro orgoglioso, ornamentale, intimidatorio e quantificato di un’epoca: lo spettro supremo di uno stile”, scriveva Salvador Dalì. Emblema di autorità e potere, luogo di raccoglimento e contemplazione, ma anche riflesso dei cambiamenti sociali e culturali nel corso dei secoli. La sedia, rigorosamente scevra dai consueti canoni di funzionalità ed estetica, diviene protagonista assoluta della mostra In_sedia_menti, ospitata all’interno della rassegna ZonaFranca, giunta al secondo anno di programmazione. La cornice, destinata a luogo d’incontro e contaminazione di linguaggi, è quella della torre di Torregrande, la più estesa delle antiche fortezze spagnole dell’isola, a pochi chilometri da Oristano. Performance, poesia e musica hanno fatto da sottofondo al progetto organizzata dal My Mask Cafè in collaborazione con AskosArte, che ha visto diciassette artisti confrontarsi con il tema della sedia, concepita non come canonico complemento d’arredo o raffinato oggetto di design industriale -che da sempre rappresenta una sfida alle leggi di gravità e alla creatività progettuale- ma come espressione soggettiva che affonda le radici nei suoi significati storico-culturali. Passando da quello simbolico di gerarchizzazione sociale di tutte le epoche e culture, fino ad arrivare ad esplorare i più occulti ambiti magico-religiosi. Apre l’esposizione la sedia antropomorfa di Giuseppe Bosich, seguita dal monumento intoccabile di Ermenegildo Atzori che, protetto da una recinzione a catene e da un inquietante guardiano di matrice fortemente baconiana, esorta alla cautela. È la sedia delle trasfusioni sanguigne, quella che Paolo Ollano concretizza. Sofferenza e drammaticità sono in questo caso edulcorate dal messaggio positivo che la consacra come inesauribile fonte di vita. Al contrario lo scranno di Paola Porcu -assemblaggio di materiale organico animale bloccato nella sua naturale decomposizione- è un inno alla morte e alla resurrezione contraddistinta dalla melagrana che campeggia al centro della spalliera.


Se la poltrona di Valentina M., nella sua atmosfera metafisica, è destinata all’attesa che mai verrà colmata, la seggiola sarda di Federico Carta è frutto di sovrapposizioni d’esperienze attraverso materiali poveri e di riciclo provenienti dalla tradizione isolana. Per Giuliano Sale invece, la sedia diviene espressione di autorità politico-religiosa di un’inquietante setta sorta da inverosimili manipolazioni genetiche, in una non lontana epoca postatomica, che ben si accosta all’etereo sedile di Silvia Argiolas, ispirato ad Alice nel paese delle meraviglie per creare un luogo di protezione, una sorta di grembo materno a favore di un’infanzia negata. Fragilità ed equilibrio dello spirito sono alla base della stool ghanese di Nazareno Miconi, ciondolante dal soffitto in attesa d’essere annerita per consentire il consacramento dell’individuo alla divinità, mentre da un DNA estraneo al male originano i bambini indaco ai quali il Progetto Askos dedica un candido manufatto. Conclude il percorso Giovanni Medda che, attraverso lo studio del suono e la riflessione cinetica, da vita ad un percorso in ciclo continuo con l’utilizzo di materiali tecnologici in disuso ed elementi di archeologia industriale. Non semplici sedute quindi, ma testimonianze della controversa epoca contemporanea -in questo godibile quanto eterogeneo percorso- poiché, come sostenuto da Walter Benjamin, “solo perché la storia viene feticizzata in oggetti fisici, possiamo capirla”. (Roberta Vanali - Articolo pubblicato su Exibart)

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