START

Nonostante il sistema dell’arte in Sardegna sia a dir poco inesistente è innegabile la percezione di un fermento artistico-culturale che connota l’attuale periodo e che pare volto all’affrancarsi da quello stato confusionario e dal folklorismo latente e al superamento di quelle barriere che da sempre affliggono l’isola, humus al quale gli addetti ai lavori – escludendo poche realtà – si sono adattati per lungo tempo. A tal proposito l’apertura di una nuova galleria a Cagliari non può che costituire un tramite alla comprensione dei linguaggi contemporanei per un pubblico ancora poco addentro, creando, al contempo, interazioni tra realtà isolane e nazionali per una crescita comune che apra nuovi scenari d’incontro e dialogo con un occhio di riguardo per le nuove generazioni e l’attualità della loro ricerca. La galleria Studio 20 apre i battenti con il proposito di soddisfare tali ambizioni, consapevole della strada tortuosa da percorrere e degli eventuali rischi e mossa, ciononostante, dalla passione del suo artefice con l’obiettivo che la rinascita effimera prospettata trent’anni or sono, con la sinergia degli operatori del settore, si concretizzi infine nella realtà e le dia un seguito.
L’inaugurazione dello spazio è affidato alla mostra collettiva START per una ricognizione sul territorio isolano delle ultime tendenze estetiche che affrontino una ricerca assidua e coerente lontana da facili improvvisazioni. Attraverso un’opera della loro ricerca ultima, che va a configurarsi come punto di partenza di una nuova fase al suo esordio in galleria, quindici artisti con un background consolidato - Silvia Argiolas, Leonardo Boscani, Cristian Chironi, Simone Dulcis, Elisabetta Falqui, Marta Fontana, Gavino Ganau, Monica Lugas, Gianni Nieddu, Pastorello, Giuliano Sale, Josephine Sassu, Gianfranco Setzu, Danilo Sini, Giorgio Urgeghe - e tre esordienti - Valentina M., Franco Podda, Roberta Ragona – esibiscono un’eterogeneità di linguaggi che contempla dalla pittura figurativa all’informale, dall’installazione al video, dall’elaborazione digitale alla grafica. Con una cadenza da stabilire, START ambisce a divenire un appuntamento fisso nell’offrire un’attenta selezione che suggerisca nuove riflessioni sulla nostra controversa epoca, mediante sperimentazione, attualità dei mezzi e profondità teorica e stilistica tracciando un variegato quanto qualitativo spaccato dell’esperienza artistica in Sardegna.


Connotate da lucida denuncia politico-sociale, le immagini giustapposte di Almost Heaven, di Gavino Ganau, rivelano un ben lontano paradiso annunciato. All’insegna di un drammatico bianco e nero, con ambientazioni tra noir francese e cinema americano anni cinquanta, i racconti metropolitani si configurano come frame neorealisti estrapolati della quotidianità e sapientemente filtrati dai mass media. Appartiene ad un’alienata era post-atomica, la grottesca visione di Giuliano Sale che racchiude ansie e orrori dei nostri tempi. Un bimbo idrocefalo, vittima inconsapevole di esperimenti da laboratorio, si accinge ad accarezzare un grosso topo divenuto parte integrante di una società degenere al limite dell’inverosimile. Così come appare dalla cruenta rappresentazione dal gusto manga di Silvia Argiolas - che s’ispira a Silvia Plat per affondare la lama nel delicato tema della pedofilia - con la sua bambola-lolita, non lontana dagli enfants di Nara, che sfugge alle violenze del mostro mettendo fine alle sue pene in una vasca che conserva ancora le tracce del suicidio. Dalla tradizione fumettistica giapponese, con sfumature noir alla Tim Burton, derivano anche le bambole di pezza di Roberta Ragona, specchio della decadenza umana come avviene per l’altolocata lady che sgonfiandosi come un sacco vuoto rimane ancorata al suo trono per non soccombere, simbolo evidente della perdita di uno status. Straniante e sospesa in uno spazio rigorosamente piatto spartito come negli smalti cloisonnè - sostituito ai fondi tubisti di legeriana memoria – l’ambigua figurina di Pastorello possiede una plasticità rinascimentale che ben si uniforma alla stilizzazione fumettistica non trascurando frontalità e fissità delle icone medievali che ne restituiscono una parvenza ancor più sinistra. Poetico narratore del quotidiano, Gianni Nieddu completa il panorama del figurativo muovendo dalla serialità della rappresentazione per rivelare drammaticità ed inquietudini latenti con ironia e forte impatto emotivo. Natinelduemilaequattro è un significativo esempio della dissacrante e personalissima narrative-art dove leziosi pulcini neonati da vittime si tramutano in violenti carnefici.
Il tamburo, come emblema della società tribale e come intercessore tra l’umano e il divino, si trasfigura, perdendo di spiritualità, per divenire oggetto omologato di una società in balia del più sfrenato consumismo, nell’imponente tela di Simone Dulcis, tra un linguaggio gestuale che ne evidenzia la forza prorompente e la velata rappresentazione formale. Al contrario i Tre neri di Giorgio Urgeghe, codici occulti, poetici ideogrammi dai significati ermetici frutto dell’evoluzione dei graffiti metropolitani, si rivelano nella loro sintesi in un sapiente e calibrato equilibrio tra forma e spazio.
Nell’impossibilità di tracciarne i confini, Valentina M indaga l’identità come sovrapposizione e stratificazione di esperienze in una riflessione soggettiva che si palesa come luogo mentale in continua evoluzione. Di magrittiana memoria, il lightbox Distorsioni rappresenta una fase di quell’ incessante percorso evolutivo. Non appare distante l’ambito nel quale si muove Cristian Chironi che ripercorre la fase della vestizione della sposa nella volontà di appropriarsi di una seconda pelle, metafora della ricerca di un’identità perduta da ritrovare nella memoria, in una sequenzialità fotografica in loop. Nel campo dell’elaborazione digitale si misura Franco Podda, manipolatore di materiale trash attinto dal web e decontestualizzato, per approdare ad esiti di profondo lirismo come nell’eterea geisha di derivazione bontage. Stessa operazione per Leonardo Boscani e il suo Tappeto volante, imponente manifesto metropolitano, di estrazione mediatica, che si prospetta come un ironico viaggio nel passato tramutandosi in eloquente documento storico del perverso meccanismo economico-sociale.
E’ il gusto per l’effimero che induce Josephine Sassu a fissare l’immaginario ironico con ago e filo attraverso essenzialità, sintesi formale ed accensioni delle campiture non estranee ai tessuti deperiani e al mondo dei cartoon. Con Ti ignorerò l’artista gioca a sovvertire il linguaggio dei fiori per adattarlo a personali esigenze linguistiche ed estetiche. Muovono da un immaginario nipponico, le colte e spiazzanti raffigurazioni di Gianfranco Setzu, icone fashion della contemporaneità, meticolosamente create in ogni minimo dettaglio, tanto originali quanto legate alla tradizione del ricamo che lascia emergere in tutta la sua raffinatezza la maliziosa e sensuale Eve che avvicina la bocca al frutto proibito ora divenuto ghianda.
Di gusto minimalista è l’ironica Cucina componibile di Elisabetta Falqui, installazione interattiva dalle piatte campiture pittoriche per una riflessione sulla serialità, in antitesi alla banalizzazione della riproducibilità dell’opera d’arte nell’epoca contemporanea. Attraverso un processo di sperimentazione dei materiali e il recupero della parola tramandata come eredità di un popolo, si esprime Monica Lugas. Compenetrazione tra macrocosmo e microcosmo, Nius ‘e fogu assume anche una connotazione fortemente sessuale nel tentativo di porre in contrapposizione il candore della verginità, dell’involucro esterno, con il fuoco della passione del bagliore interno. Costituita da moduli, angoli acuti posti in relazione dall’incontro-scontro direzionale che vengono a creare un sistema sociale, l’installazione di Marta Fontana attinge dalla Teoria della società di Luhmann per indagare gli aspetti alchemici più reconditi di materiali di recupero e terraglie naturali. Nulla di tangibile, invece per la presenza-assenza di Danilo Sini che in un’operazione concettuale ribadisce la sua posizione polemica nei confronti del sistema dell’arte. (Roberta Vanali da catalogo mostra)

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