Martin Worn



Il colore e' il mezzo più relativo che esista, io posso annientare il rosso piu' vivo se lo accosto a un violetto, posso far ballare il grigio piu' triste se lo metto vicino a un nero, esso si comporta come io mi aspetto”. Martin Wörn (1954, Schwetzinger) pare echeggiare le parole di Josef Albers secondo il quale nessun colore ha un aspetto univoco, ma è caratterizzato dalla stretta relazione con gli altri secondo un’interazione che può risultare armonica o dissonante. L’artista prepara i colori da sé legando pigmenti naturali a collanti ed acrilici per ottenere tonalità mai identiche grazie alla loro diversa origine. Stesi con estrema precisione su supporti rigorosamente quadrati, i pigmenti divengono medium atti ad indagare i limiti della percezione visiva. Tratte dal ciclo Squilibri, le venti opere in mostra a Calasetta presentano una struttura cromatica bipartita culminante al centro con la giustapposizione di un piccolo quadrato che si contrappone allo sfondo, realizzato esclusivamente con tonalità che dal grigio chiaro giungono al nero, e che si struttura come solida cornice a far emergere le sottili differenziazioni tonali. Martin Wörn procede scientificamente sulla scia delle riflessioni teoriche che da Goethe arrivano ad Itten e Albers per favorire accostamenti azzardati che provocano un’immediata e coinvolgente stimolazione retinica. Campiture piatte divengono vibranti, pulsanti e mobili. Talvolta appaiono come distese vellutate altre vagamente lucide. Nonostante la pittura di Wörn non venga intesa come rappresentazione o racconto, bensì con rigore geometrico impostato sul valore espressivo della cromia, essa si articola come punto d’incontro tra razionale ordine progettuale e coinvolgimento emotivo. “Il colore segue proprio come l’essere umano, due diversi modi di comportamento: prima realizza sé stesso e poi instaura rapporti con gli altri”.

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