La SS. Trinità di Saccargia


Armoniosamente inserita in una suggestiva vallata, nel periodo Giudicale l’abbazia della SS. Trinità di Saccargia fu uno dei più fiorenti e celebri monasteri camaldolesi...



 Molto si è discusso sull’origine del toponimo Saccargia che secondo lo Spano deriverebbe dal vocabolo fenicio sachar ossia luogo chiuso, riferito probabilmente alla vallata circondata da rocce vulcaniche nel quale si erge la basilica. L’immagine di alcune vacche scolpite nel capitello del portico antistante potrebbe avvalorare l’ipotesi che il toponimo avrebbe origine, invece, da sa acarpa ossia vaccheria, data la notoria fertilità della vallata nel periodo medievale. Secondo il Libellus Judicum Turritanorum la fondazione dell’abbazia camaldolese della SS. Trinità di Saccargia sarebbe da attribuire al giudice Costantino I de Lacon Gunale e a sua moglie Marcusa per adempimento ad un voto. Consacrata il 5 ottobre 1116 sotto il pontificato di Pasquale II, l’abbazia è documentata tra i possedimenti camaldolesi anteriormente al 1112. Dal XVI secolo risulta abbandonata per la progressiva decadenza dei benedettini fino al principio del XX secolo, quando, sotto la direzione di Dionigi Scano, si operò il restauro e la ricostruzione integrale di alcune parti senza sostanziali modifiche.


L’impianto a croce commissa, con aula mononavata, è costituito da un transetto triabsidato con bracci voltati a crociera e una facciata preceduta da un portico. L’edificazione della basilica in opera bicroma alterna cantonetti calcarei e basaltici che ne distinguono due diverse fasi costruttive, la prima propria di maestranze pisane attive nel giudicato di Torres alla fine dell’XI secolo, mentre la seconda, risalente alla seconda metà del XII secolo, è collocabile in ambito pisano-pistoiese. All’impianto appartengono il transetto e parte dell’aula, successivamente sopraelevata, allungata e munita di una nuova facciata. Divisa in tre ordini, in quello inferiore si apre il portale sormontato da architrave a timpano rialzato, mentre i due superiori sono costituiti da una finta loggia di colonnine trachitiche sulle quali s’impostano arcatelle pausate da intarsi geometrici a losanghe e a ruote concentriche. Al centro dell’ordine mediano si apre una bifora con colonnina spartiluce, che tra il 1903 e il 1906 ha sostituito l’originario rosone. Alla seconda fase appartengono il portico, con volte a crociera, impostato su colonne e pilastri angolari, la sacrestia e il campanile a canna quadrata, nel quale la prima cella riceve luce dalle bifore con capitello a stampella, mentre nella seconda, pausata da archetti pensili, si aprono una serie di trifore. Capitelli e ghiere scultoree del portico sono esemplate sull’unico modello originario custodito all’interno della chiesa. Le tre arcate frontali sono rifasciate da sopracciglio intagliato, la ghiera centrale conserva le sculture originarie con animali fantastici, mentre le due laterali presentano tralci fitomorfici realizzati con l’uso del trapano. Nel settore meridionale del sito si conservano i pochi resti del monastero e del chiostro.




All’interno la monotona nudità della navata è spezzata dall’abside affrescata con un ciclo neotestamentario, l’unico del periodo romanico conservato integralmente in Sardegna. Al centro del catino absidale il Cristo benedicente sul globo è racchiuso in mandorla ed affiancato da angeli, arcangeli e serafini, nel registro mediano un personaggio inginocchiato davanti a San Benedetto precede la Vergine accompagnata da undici apostoli. Nella fascia sottostante si stagliano cinque scene della Vita di Cristo: l’Ultima cena, il Bacio di Giuda, la Crocefissione, il Seppellimento e la Discesa agli inferi. La fascia inferiore conclude l’affresco con un finto velario. La suddivisione in riquadri è comparabile ad una giustapposizione di pagine miniate presenti nei codici dell’epoca, riferiti probabilmente a monaci benedettini particolarmente sensibili ad influssi bizantini. Il Toesca vi riconobbe un anonimo pittore umbro-laziale dei primi anni del XIII secolo, ascrizione confermata dal Maltese che attribuisce l’esecuzione dell’affresco al Maestro della Croce del Museo Nazionale di Pisa, inserendoli cronologicamente nella seconda fase costruttiva dell’abbazia.

Bibliografia essenziale
R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo ‘300 = Storia dell’Arte in Sardegna, Nuoro, 1993.
R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma, 1953.
G. G. King, Pittura sarda del Quattro – Cinquecento, a cura di R. Coroneo, Nuoro, 2000.
C. Maltese, Arte in Sardegna dal V al XVIII secolo, Roma, 1962.
G. Padroni, Orme pisane in Sardegna, Pisa, 1994.
M. Pintor, “La badìa e la chiesa di Saccargia” in Sardegna Economica, Cagliari, 1962.
D. Scano, Storia dell’Arte in Sardegna dall’XI al XIV secolo, Cagliari-Sassari, 1907.
A. L. Sechi, Ritrovare Saccargia, Cagliari, 1992.
R. Serra, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500 = Storia dell’arte in Sardegna, Nuoro, 1990.
P. Toesca, Il Medioevo, Torino, 1927.

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