Carol Rama_Il corpo femminile come autoterapia



Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che, esaminandosi, diranno tutto.
Sylvia Plath


In una Torino conservatrice e puritana degli anni Venti, estasiata dell’esperienza di modella nello studio di Gemma Vercelli, una bambina iniziava a muovere i primi passi nel mondo della pittura. Quella bambina alla quale Edoardo Rubino concedeva di disegnare nel suo atelier e che di lì a breve avrebbe anticipato linguaggi e tematiche del nostro tempo.  La stessa che, attraverso immagini frammentarie, provenienti da un repertorio feticistico che si fonde ad un erotismo a tratti selvaggio, è riuscita ad esorcizzare ossessioni, angosce e drammi familiari, ponendosi decisamente come un unicum nel panorama artistico italiano. Non ho avuto modelli per il mio dipingere; non ne ho avuto bisogno avendo già quattro o cinque disgrazie in famiglia, sei o sette tragedie d’amore, un malato in casa, mio padre che si è suicidato a 52 anni perché era diventato povero [..] Sono tutte cose che mi sono bastate per avere soggetti su cui lavorare. Caustica, disinibita e spiazzante, con radici borghesi e un’educazione cattolica che hanno alimentato il gusto del proibito e inevitabilmente il suo immaginario, Carol Rama si rifugia in un universo visionario per guarirsi: la pittura è una cura meravigliosa. Anzi è una sostituzione dell’amore. E’ il risultato di quella seduzione per il concetto di peccato, dove l’esplicita sessualità, mai volgare o scabrosa, si contrappone alla delicatezza delle stesure di colore e alla linea fluida e decisa quanto raffinata, prescindendo da regole canoniche e sistematizzate, dal momento che codici e regole sono le malattie del mondo. Ribelle e appassionata usa il corpo femminile come veicolo per analizzare l’angoscia esistenziale e affrancarsi dal maschilismo imperante profetizzando la poetica post-human e le lotte per l’emancipazione femminile, con quella cifra stilistica che tanto l’accosta a Schiele ed Ensor. 



 
Antesignana nel trattare le tematiche di liberazione sessuale, nonostante il movimento femminista la lasciasse totalmente indifferente, estrapola fin dagli anni Trenta i dettagli di una narrazione ben precisa per osservarla minuziosamente e sezionarla con spietata ferocia. La decadenza del corpo, la follia, la libertà, il sesso e la morte sono i concetti ricorrenti di un espressionismo che Sanguineti ha definito tra un raffinato brut e un colto naif e che sono confluiti nella prima mostra personale chiusa prima dell’inaugurazione. Era il 1945 e si gridava allo scandalo.
Isolata e sottostimata in campo artistico ma sostenuta da Felice Casorati già dagli anni Quaranta, oltre a Edoardo Sanguineti vantava amicizie come Italo Calvino, Eugenio Montale, Man Ray, Andy Warhol, Orson Welles e Liza Minnelli, la donna-bambina discendente di una famiglia borghese caduta in rovina, che si è ritrovata schiacciata sotto il peso di colpe che non le appartenevano. La rabbia è la mia condizione di vita da sempre. Sono l’ira e la violenza a spingermi a dipingere, e ancora: la mia arte piacerà moltissimo a quelli che hanno sofferto. Perché la follia è vicina a tutti. E perché l'arte se non è già la vita, almeno è libertà. Quella libertà che poteva esercitare tra le mura della sua casa museo dalle tende nere alle finestre e dal grande letto, dove spesso riceveva gli amici, dove attraverso i frammenti del suo passato ha costruito quello che è diventato il suo futuro, attraversando le avanguardie del XX secolo senza mai rimanere intrappolata in una corrente ben precisa o cedere a regole di mercato. Tra questi oggetti-feticcio, reliquie e frammenti dell’identità  che hanno rappresentato una costante del suo percorso: protesi di legno, dentiere, orinatoi, scopini per il water, pennelli da barba, camere d’aria di biciclette, provenienti dalla fabbrica del padre, o le forme da scarpa del nonno calzolaio, ovvero quei simulacri che hanno consentito la discesa agli inferi della sua anima. 



 
La sperimentazione calcografica, gioiello della produzione artistica per la varietà di soggetti iconografici e di tecniche incisorie, ha inizio con Le Parche - acqueforti su zinco realizzate tra il 1944 e il 1947 -, implacabili divinità incarnate da inquietanti figure femminili dai corpi disarticolati, dagli arti nodosi e dai tratti somatici grotteschi che affollano inquadrature serrate al limite del claustrofobico rimandando alle xilografie spigolosamente espressioniste di Kirchner e Kate Kollwitz. Signore del fato, corrispettivo delle Moire greche, esposte per la prima volta nel 1946, scaturiscono da tre episodi che, come cicatrici, hanno lasciato un segno indelebile: il racconto di un amico del padre secondo cui una bellissima prostituta fu trovata annegata nella Senna, mutilata di braccia e gambe, i bagni sotterranei della clinica psichiatrica dove si recava a visitare la madre e le immagini di un mattatoio a Rivoli. Dichiara a Corrado Levi nel 1993: Quando avevo dodici anni io vado quasi tutti i giorni in una clinica psichiatrica a trovare una persona, e lì mi nasce una grande felicità perché non ho capito che ero in un ambiente manicomiale e la libertà che trovavo in queste persone con la lingua fuori, le gambe spalancate o accucciate o in qualche modo: qualunque persona era ormai più importante della mia famiglia, ormai avevo abdicato e come rinunciato. Quelle gambe spalancate ad offrire la vulva come nella serie Cadeau e quelle lingue penzolanti di Malelingue - profili talmente essenziali da apparire quasi monogrammi, con interventi soprattutto a smalto che dilatano le lingue in maniera orizzontale rendendole particolarmente insinuanti -, incise su progetti industriali, fax, mappe catastali e persino su alcune poesie di Sanguineti, dove i significati si stratificano e l’esigenza di intervenire pittoricamente su supporti prestampati si fa sempre più irresistibile, sono parte di quel ritorno alla calcografia abbandonata con Le Parche. Avere uno sfondo mi deresponsabilizza; mi fa coraggio. E ancora prendo pezzi di altri, perché ho bisogno di un suggerimento. Sono visioni violente nella loro raffinatezza formale, quelle a cui Carol Rama da vita dal 1993 grazie agli stimoli dell’amico Franco Masoero, con un uso dell’erotismo come funzione liberatoria che dal martirio trae la spinta verso l’eros, tra l’esistenza frammentata e il corpo lacerato delle serie Appassionata, tipologia di rappresentazione femminile dove l’infermità - da scontare rigorosamente su sedie a rotelle o su letti di contenzione - è emblema di sofferenza e sacrificio. Come in Dorina, serie di donne amputate della loro femminilità che ostentano corone floreali, le stesse che mette a Edoardo Sanguineti ma ben diverse da quelle degli Oracoli, pesanti elmi che cingono il capo schiacciandolo verso il basso. 


 
E se i numeri scarabocchiati in Giulia fanno da sfondo ai Feticci, scarpe fibbiate contenenti internamente un evidente pene, i tralci fioriti e i racemi dei Teatrini grotteschi della crudeltà, fatti di protesi ortopediche, che appaiono come ex voto in mostra, ritornano in opere come Gotica, Seduzioni e Fata Morgana, tecnica mista su una mappa geografica costellata da occhi vitrei. Di Nonna Carolina, uno dei primi soggetti ad essere rappresentato dall’artista, troviamo in mostra due versioni di una stessa rappresentazione dove la donna porta intorno al collo sanguisughe che fanno da piedistallo alla testa monca. Oltre all’acquerello Idilli, che insieme a Gotica e Mitologica riassume il bestiario dell’artista -, alle due versioni della celebre La Cagona e Il Disegno Prescritto - acquerello con interventi a smalto su un progetto di architettura, progetto originale del manifesto per la mostra personale a Borgomanero nel 2005 - una vasta gamma di Seduzioni completa l’esposizione: dalle composizioni erotiche di Seduzioni I, uomo e donna a confronto dove il primo mostra il pene in erezione mentre la seconda ostenta mani ingioiellate simili a feroci zampe con artigli, a La Mano, Il Pugno e Il Bracciale e Non i Fiori dove interviene con smalti rossi, neri e grigi fino ad arrivare ai sintetici Seduzioni VIII, dove la bocca del profilo coincide con l’organo sessuale femminile del nudo sdraiato.



 
Eccentrica, schiva e istintiva, ha attraversato un secolo lavorando incessantemente ma solo dagli anni Ottanta ha iniziato a ricevere i riconoscimenti dovuti che culminano con il Leone d’Oro alla Carriera nel 2003. Sono troppo incazzata perché sono stata “scoperta” a 80 anni, dichiara in occasione della prima grande mostra allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1998. Un angelo luciferino, affabile e selvatico, paragonata a Louise Bourgeois per irriverenza e trasgressione intrise di ironia e sarcasmo, ma non dissimile da Maria Lassnig, come da Nathalie Djurberg per carnalità e violenza o dall’outsider Aloïse  Corbaz - soprattutto per quanto concerne gli elementi stilistici e cromatici - che nel tentativo di esorcizzare i suoi tormenti definisce la creatività come unica fonte di estasi perpetua. Un’anima dannata e rivoluzionaria, ossessionata dal dolore e dal desiderio di liberarsi dai  sensi di colpa e preconcetti di una società conservatrice e bigotta, aspetti che tanto la accomunano ad Antonin Artaud, come si evince da un passaggio tratto dall’epistolario con Jean Paulhan: le idee che ho le invento soffrendole io stesso, passo passo, io scrivo soltanto ciò che ho sofferto punto per punto in tutto il mio corpo, quello che ho scritto l'ho sempre trovato attraverso tormenti dell'anima e del corpo. 
 


Testo in catalogo della mostra "Carol Rama_Lei Lui Loro" a cura di Efisio Carbone, Ivana Mulatero, Roberta Vanali e Alexandra Wetzel, Exma Cagliari / MACC Calasetta, 22 aprile - 26 giugno 2016

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