Intervista a Giovanni Manunta Pastorello


Muove da un immaginario allegorico intriso di spiritualità, dove figure dalla stilizzazione cartoonistica vivono in spazi sospesi e senza tempo, Giovanni Manunta, meglio conosciuto come Pastorello (Sassari, 1967). Talvolta presenze aliene diventano forme che perdono di consistenza per dilatarsi nello spazio. Tra gestualità e costruzione calcolata, l’artista spalanca scenari neo pop con selve impervie e disabitate che attingono all’ambito surreale per approdare a composizioni aniconiche di matrice tubista. A favore di un’espressività pittorica, tra classicismo rinascimentale e stratificazioni di cultura di massa, di forte impatto cromatico e visivo.


Sei uno dei capiscuola della pittura sarda contemporanea, quali differenze riscontri tra gli anni ‘80/’90 ed oggi?
La differenza principale è che negli anni 80 ero un giovane artista promettente e oggi sono un artista quarantasettenne che non sa se è riuscito a mantenere la promessa. Sarei più attendibile se mi limitassi a parlare di Sassari: nel 1986 decido di lasciare l’istituto d’arte per fare il pittore e nel 1987 inizio a frequentare un gruppo di artisti che, fuori dall’ambiente scolastico, si occupava di arte contemporanea.
Ero il più giovane ma mi hanno accolto con entusiasmo. In quegli anni si era creato un pubblico fedele che ci seguiva in tutte le nostre manifestazioni, così come i critici, ed erano comparsi i primi collezionisti ormai stanchi del ‘900. L’attenzione da parte delle amministrazioni comunale e provinciale ha aggiunto “l’energia” necessaria per far salire di livello quello che stavamo facendo. Gli anni ‘90 sono stati differenti (nel frattempo ho fatto l’accademia a Firenze) perché si sono aggiunti nuovi elementi: nuovi artisti, l’accademia a Sassari, il MAN a Nuoro e l’inaugurazione del Masedu che non è mai diventato un museo.
Dal 2001 a Sassari c’è stata una dispersione di energie che ha frenato e in parte dissolto quel “movimento”, da cui ne è nato uno più numeroso ma caotico, separato in diversi gruppi. Per quanto riguarda l’arte, l’ambiente artistico era prevalentemente neo concettuale e anche i pittori, come me, avevano un aspetto concettuale marcato nel loro lavoro. Personalmente sono sempre stato più teorico che concettuale, comunque, e qui azzardo, in questi anni si sono formate due correnti ben precise: una neo concettuale, tendente ad un lavoro di tipo internazionale, e una pittorica tendente più ad un aspetto intimo e universale.


Quali evoluzioni ha subito la tua ricerca pittorica da allora?
Da ragazzo ero attratto dai pittori espressionisti, Kirchner più di tutti e tutti i neo pittori selvaggi venuti fuori dopo la Trasavanguardia. Il graffittismo, Haring in particolare, mi aveva sedotto e ancora non conoscevo Basquiat. Ero studente a Firenze e l’incontro con le opere di Giotto, Simone Martini, Pietro Lorenzetti e Basquiat, i muri con le tantissime sfumature di terre e ocra con piccoli interventi di graffittisti (non writers) che passavano a Firenze ha influenzato fortemente il mio lavoro.
Dopo l’accademia ho avuto un periodo di riflessione, continuavo a chiedermi se il mio lavoro avrebbe potuto meritare di rimanere in un museo e allora ho cercato di alzare il tiro. Tutto il bagaglio che mi sono portato dietro da Firenze, simbolismo, esoterismo, numerologia unito al mio spirito moderno e progressista, mi ha portato a definire una teoria che ancora applico perché non sono ancora riuscito a trovare una contraddizione; la divido in due parti distinte che chiamo Cosmetica e Psicofisica. Ho cercato, con questo modello, di affrontare tutta l’iconografia pittorica, dalle grotte di Lascaux alla pittura senese, dal suprematismo di Malevic alla pittura contemporanea, e non ho mai smesso di guardare ai pittori minori sardi che avevano sempre qualcosa che mi apparteneva, dai vari maestri anonimi del 500/600 ai pittori sassaresi, che si sono formati guardando alla pittura di Sciuti, e gli astrattisti storici.


La tua espressività oscilla da sempre tra figurazione e astrazione, da cosa nasce questa esigenza e quale linguaggio ti è più congeniale?
Sì, diciamo che ho cercato di superare la schizofrenia che separa questi due aspetti nella pittura. Ora non distinguo più, ho trovato quello che cercavo; una sintesi. Il lavoro di Nivola mi ha aiutato molto in questo e sono riuscito ad apprezzarlo grazie a Picasso e Brancusi.
Ultimamente tutto il mio lavoro è influenzato dalla tecnica che utilizzo, che mi sono inventato cercando una sintesi tra la forma tubolare di alcune tag, la pittura cinese e la pittura su tavola italiana del 1200. Dipingo quello che devo dipingere, non decido quasi niente.


Quali sono i tuoi artisti di riferimento?

Nessuno in particolare a parte la storia dell’arte, i Pink Floyd e la New Wave.

La galleria L.E.M. che gestisci da diversi anni a Sassari ti ha dato modo di vivere l’arte contemporanea da altre angolazioni? E come ha influito all’interno del tuo percorso?
Il LEM mi ha costretto a confrontarmi quasi quotidianamente con la generazione degli artisti più giovani. Mi ha stimolato, arricchito, rovinato… mi costringe a stare al mondo. Credo sia importante.


Quale mostra ospita il L.E.M. in questo periodo e quali sono i progetti futuri?
Ora espongo la doppia personale di Adriano Annino e Silvia Argiolas curata da Ivan Quaroni, subito dopo inauguriamo la doppia personale di Gavino Ganau e Francesca Randi curata da Sonia Borsato. Credo sia finito un ciclo, casualmente iniziato e concluso da Silvia Argiolas che assieme a Silvia Mei ha inaugurato la prima mostra del LEM, a parte l’inaugurazione dello spazio con tutti gli artisti della galleria. Ora sono più attratto da progetti di artisti più vicini alla mia generazione oppure da giovanissimi outsiders. Credo sia terminata la missione iniziale del laboratorio di estetica moderna, è ora di definire un’identità differente alla galleria. Questa è la mia esigenza.

Quali concetti legati alla realtà preferisci sviluppare con la pittura?
Il concetto di esistenza, dell’impossibilità di individuare un “io”, della plausibilità di quello che percepisco/concepisco. Mi chiedo ancora cosa sia il mondo.


Il gesto pittorico segue anche l’istinto oppure è esclusivamente il risultato di una ricerca ben ponderata?
Non sono mai uguale a me stesso e continuo a ripetermi. Sono l’errore e il fraintendimento ad agire più dell’istinto o della ragione. Quando lavoro non sono me stesso ma uno strumento di quello che faccio. Raggiungo, in alcuni momenti di grazia, quello stadio in cui vedo quello che sta per accadere: la forma che si compirà; è tutto molto magico, e credo più nella fortuna che nel talento. Io so fare solo quello che so fare.

Come vedi lo stato attuale della pittura e in quale direzione ti sembra procedere?
La pittura ha avuto una apertura in tutte le direzioni, si può fare qualsiasi cosa e nonostante tutto molti cercano ancora di uniformarsi a qualcosa di riconoscibile, di appartenere ad un gruppo. Quello che ho sempre cercato di fare è essere differente. Ho sempre sentito di avere la possibilità di dire qualcos’altro e ho provato a farlo. Mi attira molto l’autenticità della vita di alcuni artisti, le biografie estreme, le scelte totali. Cerco di andare in questa direzione, sento la necessità di donarmi completamente, essere strumento fino in fondo. Mi fido del mio “corpo” e cerco di assecondarlo.


Quali sono le tue gallerie d’appartenenza?
Nessuna, un po’ per scelta un po’ per costrizione. Ho lavorato con tante gallerie: Massimo Carasi quando stava a Mantova, Andrea Arte di Vicenza, White Project a Perscara, Franco Marconi a Cupra Marittima, Galleria Carini di San Giovanni Valdarno, Claudio Poleschi, Antonio Colombo a Milano, la galleria Bonelli… Spero di non dimenticare nessuno.
Se fossi costretto a nominarne uno sarebbe Franco Marconi, anche per ragioni di affetto non solo di stima. Ci vogliamo bene.


Qual è stato l’evento o la mostra determinate per il tuo percorso artistico?
La prima.

A cosa lavori in questo momento e quali sono i progetti futuri?
Sto lavorando ad una doppia personale con Giuseppe Restano. Vorrei trasferirmi a Parigi.

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